Licet Varro Musas, Aelii Stilonis sententiā, Plautino dicat sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent, licet Caecilium veteres laudibus ferant, licet Terentii scripta ad Scipionem Africanum referantur (quae tamen sunt in hoc genere elegantissima et plus adhuc habitura gratiae si intra versus trimetros stetissent), vix levem consequimur umbram; adeo ut mihi sermo ipse Romanus non recipere videatur illam solis concessam Atticis venerem, cum eam ne Greci quidem in alio genere linguae suae obtinuerint” (Institutio oratoria, X, I, 99).
Nella commedia soprattutto zoppichiamo.
Sebbene Varrone[1] ripeta il giudizio di Elio Stilone[2] che le Muse avrebbero parlato con il linguaggio di Plauto se avessero parlato latino, sebbene gli antichi celebrino con lodi Cecilio[3], sebbene gli scritti di Terenzio siano attribuiti a Scipione Africano, scritti che sono in questo genere elegantissimi e avrebbero ancora più fascino se si fossero limitati ai trimetri, pure a stento raggiungiamo un’ombra leggera; tanto che mi sembra che la stessa lingua latina non possa accogliere quel fascino concesso ai soli Attici, poiché neppure i Greci ottennero quella venustà in un altro genere della loro lingua.
I Greci per i Latini sono segni di contraddizione: amati e venerati da Orazio e Quintilano per fare solo due esempi, odiati e disprezzati p. e. da Catone il Vecchio e Giovenale
Gellio approva Plauto chiamandolo “homo linguae atque elegantiae in verbis Latinae princeps" (VI, 17, 4).
Orazio viceversa accusa Plauto di scarsa cura formale:
“creditur , ex medio quia res accersi, habere
sudoris minimum, sed habet comoedia tanto
plus oneris, quanto veniae minus. Aspice, Plautus,
quo pacto partis tutetur amantis ephebi,
et patris attenti, lenonis ut insidiosi,
quantus sit Dossenus edacibus in parasitis,
quam non adstricto percurrat pulpita socco;
gestit enim nummum in loculos demittere, post hoc
securus cadat an recto stet fabula talo "( Epistole , II, 1, 168-176)
Si crede che comporti pochissima fatica, poiché trae gli argomenti dalla vita comune, invece la commedia ha un peso tanto più grande quanto minore indulgenza.
Si pensi agli spettatori dell’Hecyra di Terenzio che abbandonarono due volte la rappresentazione.
Ma torniamo a Orazio che critica Plauto
Osserva in quale modo Plauto si prenda cura del giovanotto innamorato, del padre avaro, del ruffiano insidioso, quanto sia goffo nei parassiti ghiottoni, e come percorra il palco con il sandalo malmesso; è smanioso di incassare i quattrini, e dopo questo e non si cura se la Commedia caschi o stia in piedi.
Anche Plauto è segno di contraddizione dunque
Bologna 22 gennaio 2021 ore 20, 19
giovanni ghiselli
p. s
ho voluto scrivere per la seconda volta e riproporre questa parte modificata dopo avere rivisto Menandro che presenterò martedì prossimo nella prima lezione, e avere notato la differenza di qualità di questo autore ateniese rispetto ai latini. In quale senso magari lo direte voi,
[1] (116-27)
[2] Filologo, 154-74 -commentò i carmina Saliaria)
[3] Cecilio Stazio di Mediolanum (230-167 a. C)
Abbiamo pochi frammenti. Nella commedia Plocium (La collana) c’è un marito schiavizzato da una uxor dotata e la massima menandrea homo homini deus si suum officium sciat (fr. 265 Ribbeck). Viene spesso contrapposta alla plautina Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit” (Asinaria, 495),
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