lunedì 10 gennaio 2022

La letteratura drammatica latina. 1

Teatro latino 
 
Cicerone  biasima quanti dicono di disprezzare i testi scritti in latino. A costoro non piace la propria lingua il sermo patrius negli argomenti più importanti in gravissimis rebus,  mentre nello stesso tempo leggono non malvolentieri i drammi latini tradotti letteralmente dal greco
 "cum idem fabellas latinas ad verbum de Graecis expressas non inviti legant (De Fin. , I, 2, 4).
 
In un passo degli Academica,  però l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio (239-169) , suo nipote Pacuvio, e  il pesarese Lucio Accio  sono autori “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (I, 3 , 10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci.
 
La commedia latina si chiama fabula palliata  poiché gli attori indossavano il pallium , il caratteristico mantello greco, e la storia era ambientata in Grecia.
 
 Del resto anche quelle ambientate a Roma, dette fabulae togatae  avevano la struttura formale delle commedie greche.
 
Altrettanto si può dire per le tragedie che si chiamavano rispettivamente fabula cothurnata , la tragedia di argomento greco, dove gli attori calzavano il cothurnus , lo stivale.
 La fabula  praetexta era quella di argomento romano, dove gli attori indossavano la toga praetexta, un mantello bianco ornato di strisce di porpora
 
Ennio scrisse gli Annales e tragedie cothurnatae di argomento greco tratte soprattutto da Euripide, tra queste una Medea, e pure due praetextae di argomento romano: Sabinae con il famoso ratto e Ambracia conquistata da Marco Fulvio Nobiliare nel 189
 
Nevio campano Capua  nato intorno al 275-201-  Bellum Poenicum e la praetexta Clastidium che celebra la vittoria del console Marcello sui Galli nel 222
 
Anche Pacuvio (Brindisi 220-Taranto 130)  e Lucio Accio (170-85) sono autori di fabulae praetextae
 
Pacuvio scrisse la praetexta Paulus per onorare Emilio Paolo che con la vittoria di Pidna 168 sottomise la Grecia a Roma;  però poi per contrappasso Roma si sottomise alla cultura greca.
Lucio Accio scrisse le praetextae  Brutus e Aeneadae sive Decius che celebra la devotio di Decio nella battaglia di Sentino 295
 
Scusate tutti questi nomi ho dovuto metterli con date e titoli perché voglio dare un’ idea della fabula praetexta, tragedia storica di cui non ho mai sentito nemmeno il nome né al liceo né all’Università.
 Il professore di latino, Pighi, un vecchietto educato e gentile, non era però un educatore, non alla letteratura latina: tenne un corso sulle lettere scritte a Dante da Giovanni del Virgilio il quale cercava di convincere l’autore della Commedia a scrivere in latino. Per conto nostro dovevamo leggere e all’esame sapere tradurre  l’Eneide. Meno male.
Il corso di sintassi latina tenuta da un altro docente era fondato soltanto su alcuni testi di Cicerone. Mai sentito nominare non dico Petronio ma neppure Seneca.
 
Sentiamo dunque un ottimo docente emerito dell’ateneo romano Santo Mazzarino  che mi ha dato delle visioni d’insieme sulla storia greca e quella romana sempre collegate alla letteratura. Mi ha insegnato un metodo attraverso il suo libro Il Pensiero Storico Classico.
 
Non l’ho mai sentito parlare ma amici di Roma mi dissero che era bravissimo anche nell’esposizione orale. Non leggeva mai: ricordava tutto. Un modello per me.
 
Mazzarino dunque esamina il rapporto tra l'opera di Polibio e la tragedia storica romana:"In Roma la tragedia era sorta con Nevio, il poeta storico-epico del Bellum Poenicum.
 In particolare, la tragedia storica, o "pretesta", dei Romani si connetteva con la più tipica manifestazione del loro senso della storia e della morte:" quando muore un uomo di famiglia insigne, portano al funerale le imagines " (consistenti in maschere) "dei suoi maggiori. Con tali maschere coprono il viso di uomini che presentano particolari somiglianze, per l'altezza e per il resto, con quegli avi. I mascherati indossano toghe preteste" (orlate di porpora) "se il morto che rappresentano fu console o pretore; abiti di porpora, se fu censore; inaurati, se ebbe il trionfo, o simili. Vanno innanzi su carri, preceduti da fasci, scuri ed altre insegne delle magistrature che quei nobili morti avevano ricoperto. Infine, arrivati ai rostri, seggono su selle d'avorio.-E chi non potrebbe essere colpito alla vista di queste immagini di uomini illustri e palpitanti?". Sono parole di Polibio[1]stesso: rendono l'impressione che lo storico straniero riceveva a quello spettacolo abbastanza frequente, in cui la storia delle virtù gentilizie veniva rappresentata, come per generazioni disposte in fila, nella sua attualità continua. La storia diventava processione di venerate maschere...Se confrontiamo l'opera di Polibio con i frustoli di preteste che pervennero sino a noi, il carattere delle sue Storie  si potrà illuminare anche meglio. Delle lotte fra Romani e Galli, due vittorie furono celebrate con preteste: quella di Clastidium, riportata da Marcello nel 222 a. C.; e quella di Sentinum, del 295 a. C., in cui il console Decio Mus, che comandava l'ala sinistra contro i Galli (alleati dei Sanniti), s'era consacrato, col rito della devotio , agli dèi della terra e, gettandosi contro i nemici, aveva assicurato la sua morte e la vittoria. La battaglia di Clastidium era stata portata sulle scene da Nevio stesso, che certo poté seguire con ansia, come contemporaneo, quella vicenda in cui Claudio Marcello, allora il più insigne esponente del ramo plebeio dei Claudii, aveva vinto in duello il celtico Virdumaro, e riportato il trionfo.
La battaglia di Sentinum fu celebrata in una pretesta di Accio, Aeneadae  o Decius ; a differenza del Clastidium  di Nevio ( in cui si doveva sentire la passione del contemporaneo), qui c'era il ricordo di una vittoria riportata quasi due secoli prima... Polibio tratta (II 18-35) le guerre romane contro i Galli; perciò anche (II 19, 6) le vicende del 295 e più tritamente (II 34) quelle del 222. Ma non accenna alla devotio  di Decio nel 295; e non tocca il duello di Claudio Marcello con Virdumaro. Quei due consoli plebei non commuovono particolarmente la sua fantasia storica, la quale si limita a ricordare la distruzione e la fuga delle truppe galliche a Sentino, il successo strategico di Marcello a Clastidium. Si direbbe che, in entrambi questi casi, Polibio abbia voluto evitare la memoria di una devotio  e di un duello, argomenti cari ai poeti tragici-tanto più che si trattava della devotio di un plebeo, Decio Mus, il cui nome gentilizio era portato, al tempo di Polibio, da uno dei più accaniti sostenitori della tendenza graccana (il tribuno P. Decio); e del duello affrontato da un altro plebeo, Marcello, che non fu mai caro alla tradizione degli Scipioni.
Tuttavia sarebbe errato pensare che Polibio non apprezzasse la virtù romana che si esaltava in quei racconti sui plebei Decio Mus e Marcello. La battaglia di Sentino, con la devotio di Decio Mus, aveva già avuto una larga eco nel mondo ellenico: Duride, tiranno di Samo, storico di tendenza aristotelica, aveva ricordato la devotio  di quel grande console, suo contemporaneo. Era impossibile che Polibio, uomo d'arme, ignorasse quella storia di religione e di morte; o che non ne intendesse-nei limiti definiti dal suo razionalismo-il misterioso fascino. La sua differenza da Duris è, piuttosto, in ciò: egli non riteneva opportuno dedicare a Decio Mus una digressione, od anche un cenno, particolare; per lui, simili imprese individuali, affascinanti per se stesse, possono essere oggetto di rievocazione tragica, non di storia pragmatica. Perciò la devotio  di Decio a Sentinum, già ricordata dallo storico 'tragico' Duris, fu celebrata poi dalla tragedia storica di Accio; secondo la forma mentis  di Polibio potrebbe rientrare nell'anonima descrizione delle virtù romane. "Ci furono molti romani i quali volontariamente si batterono in duello per la decisione delle battaglie; e non pochi scelsero morte sicura, alcuni in guerra per la salvezza degli altri, e taluni in pace per la sicurezza pubblica"(VI 54). Polibio scrive queste parole non in particolare, a proposito di questa o quella vicenda della storia romana; ma in genere, nella sua sintesi sui caratteri dello stato romano, nel VI libro"[2]. 
 
Quintiliano scrive . “In comoedia maxime claudicamus.
 Sebbene Varrone ripeta il giudizio del filologo Elio Stilone (154-74 -commentò i carmina Saliaria) che le Muse avrebbero parlato con il linguaggio di Plauto se avessero parlato latino- Licet Varro Musas  Plautino dicat  sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent (…) licet Terentii scripta ad Scipionem Africanum  referantur (quae tamen sunt in hoc genere elegantissima et plus adhuc habitura gratiae si intra versus trimetros stetissent), vix levem consequimur umbram; adeo ut mihi sermo ipse Romanus non recipere videatur illam solis concessam Atticis venerem, cum eam ne Greci quidem in alio genere linguae suae obtinuerint” (Institutio oratoria, X, I, 99).
I latini, anche Terenzio che è il più elegante non raggiungono neppure un’ombra leggera dell’eleganza del dramma ateniese, genere che costituisce il culmine  della bellezza della lingua attica secondo Quintiliano.
 
I Greci per i Latini sono segni di contraddizione: amati e venerati da Orazio e Quintilano per fare solo due esempi, odiati e disprezzati p. e.  da Catone il Vecchio e Giovenale
 
Gellio  approva Plauto chiamandolo “homo linguae atque elegantiae in verbis Latinae princeps" (VI, 17, 4).
 
Orazio viceversa accusa Plauto di scarsa cura formale
Si crede che la commedia richieda poca fatica poiché trae gli argomenti dalla vita comune, e invece vuole tanto più lavoro quanto meno indulgenza. Plauto tratteggia male la figura del giovanotto innamorato, quella del padre avaro, del ruffiano insidioso; è smanioso di incassare i quattrini gestit enim nummum in loculos demittere,  e non si cura se la Commedia caschi o stia diritta  sui piedi senza vacillare:"securus cadat an recto stet fabula talo "( Epistole , II, 1,  176).
Anche Plauto è segno di contraddizione dunque
 
Bologna 10 gennaio 2022 ore 10, 31
 
giovanni ghiselli
p. s.
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[1]Tratte da VI 53 e tradotte liberamente. E' la maggior trattazione che possediamo sui funerali degli uomini illustri con le laudationes funebres  che falsificavano la storia.
[2]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , II, 1, p. 152.

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