martedì 18 gennaio 2022

Terenzio, Heautontimorumenos. 10

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Atto III scena terza, prima parte (562-588)

Cremete, Clitifone, Siro
 
Cremete riprende il figlio Clitifone per la mancanza di riguardo verso l’amico: l’ha visto mentre si prendeva delle confidenze fuori luogo con Bacchide.
Quid istic mos est, Clitipho? Itane fieri oportet? 562
Il figlio casca dalle nuvole e domanda: Quid ego feci?
Così  rispondono quasi sempre i bambini quando vengono accusati, e non solo i bambini.
E il padre: “Vidin ego te modo manum in sinum huic meretrici ingerere?” , non ti ho visto dianzi mettere la mano sul seno di questa puttana?
 
Non ha fatto male perché Bacchide è una “cattiva signorina” ma per il fatto che Cremete  crede che sia l’amante di Clinia
 
Facis adeo indigne iniuriam illi , qui non abstineas manum” (565) l’hai offeso proprio perché non tieni la mano a posto.
 
Il figlio poteva rispondere: la mano no, ma la mente e il cuore sì.
Come fa l’Ippolito di Euripide. “hj glw'ss j ojmwvmoc j, hj de; frh;n ajnwvmoto"” ,  (Ippolito, 612) la lingua ha giurato, ma la mente no.
Cicerone traduce iuravi lingua, mentem iniuratam gero” ( De officiis, III, 29, 107).
Anticipa il metodo gesuitico del dirigere l’intenzione. Cfr. Le provinciali di Pascal, Settima lettera.
Bisogna avere sempre la risposta pronta in questi casi della vita.
 
Il padre replica che è un’offesa contumeliast (565) ospitare un amico poi eius amicam subigitare , palpare la sua amante (566).
Cremete insiste sulla gravità del misfatto del figlio.
Clitifone risponde che Clinia si fida di lui: “at mihi fides apud hunc est” (571) e non penserebbe mai di ricevere torti dall’amico.
Risposta incontra e ambigua .
Il padre suggerisce a Clinia di allontanarsi da loro per un po’ anche perché la sua presenza toglie ai due amanti la libertà  di sfogare la loro  lubido: “multa fert lubido: ea facere prohibet tua presentia” (573).
Nostrum est intellegere utquomque atque ubiquomque opu’ sit obsequi” (578) è compito nostro  capire  comunque e dovunque sia opportuno accondiscendere.
 
Per questo ci vuole intelligenza e sensibilità capace  per cui ci mettiamo nei panni degli altri. Tali qualità sono necessarie anche in un insegnante.
Maurizio Bettini suggerisce questa cura:" Possiamo però dire che, fra i rimedi più sicuri per guarire da questo morbo, sta la terapia del rovesciamento. Con questa espressione intendiamo un esercizio quasi quotidiano che consiste nel rovesciare sistematicamente il proprio punto di vista per assumere quello dell'"altro": in modo da poter guardare se stessi con gli occhi altrui. Di questo esercizio è stato maestro uno dei più grandi pensatori che l'Europa del XVI secolo possa vantare, Michele de Montaigne"[1].
Insomma dobbiamo essere capaci di uscire dalla parte che stiamo vivendo, o recitando, per assumerne un'altra.
Certamente per farlo ci vuole esperienza di vita, o immaginazione: a  proposito della prima, negli Adelphoe di Terenzio, Micio critica l’eccessiva severità del fratello Demea dicendo: “Homine imperito numquam quicquam iniustiust,/qui nisi quod ipse fecit nil rectum putat” (vv. 98-99), non c'è niente di più ingiusto di un uomo senza esperienza, che considera tutto sbagliato tranne quello che ha fatto lui.
 
Vittorio Alfieri venne mandato nell’Accademia di Torino, nel 1758, a nove anni, e dovette rimanervi fino al 1766, senza però trovarvi maestri  adatti alla sua indole: “Nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato. E chi ce l’avrebbe dato, se gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria, né per pratica?” (Vita, 2, 1). Queste parole contengono un principio valido: che un educatore deve conoscere anche la vita, “conoscerla” quasi in senso biblico.  
 
“La vita, giovanotto, è una donna, una donna distesa sopra un giaciglio, coi seni sporgenti e rigogliosi, con la superficie del ventre ampia e liscia tra i fianchi rilevati, con le braccia sottili, le cosce tondeggianti, gli occhi semichiusi. Con provocazione magnifica e sdegnosa essa esige il massimo nostro ardore, tutta la tensione delle nostre voglie maschili. Chi resiste a lei o ne esce con vergogna…vergogna e disonore sono parole troppo blande per simile rovina e bancarotta, per tale orrendo smacco”[2].
 
Per quanto riguarda l’immaginazione: “L’amore è alimentato dall’immaginazione, per cui diventiamo più saggi di quanto sappiamo, migliori di quanto sentiamo, più nobili di quanto siamo: per cui, e per cui soltanto possiamo capire gli altri nelle loro relazioni vere e ideali”[3].
 
Siro dà ragione a Cremete domandando a Clitifone se ha compiuto il dovere di un uomo per bene e moderato, beneducato-hominis frugi et temperantis officium-579.
Cremeta arriva a dire che si vergogna del figlio-pudet me-(581)
 Siro rincara la dose: “mihi molestumst” dà noia anche a me.
Clitifone pressato da due parti si sente perduto.
Domanda al padre: “nonne accedam ad illos?” (583), non devo avvicinarmi a loro?
Cremete, temendo di essere troppo duro con il figlio, gli fa: “Eho quaeso, una accedundi viast  ?  ma va’ c’è un modo solo di avvicinarsi?
 
E’ l’anticipazione dell’est modus in rebus e del momento opportuno.
 
Siro suggerisce al padroncino abi deambulatum (587) vai a fare due passi. Clitifone domanda quo?, dove?
Vah, quasi desit locus!, dai, come se mancassero i posti!
Abi sane istac, istorsum, quo vis (588), vai pure di qua, di là, dove vuoi.
 
Ottimo consiglio è quello di andare a spasso osservando le persone, la terra, gli alberi, il cielo
Osservare l’umanità e la natura, sentirsene parte.
Trascrivo alcune parole da Piccole gioie di Hermann Hesse. Mi fanno tornare in mente i “garofanini”che la zia Giulia mi indicava sui greppi di Moena verso la fine dell’estate.
“Dappertutto rosseggiano ancora i piccoli garofani selvatici, ondeggiano come fiammelle tra l’erba vecchia, da dietro le  foglie marroni, non cantano con gli altri la canzone del tramonto, ridono e bruciano, facendo ondeggiare la loro piccola bandiera rossa, solo il primo gelo li ucciderà. Io vi amo, fratellini, voi mi piacete. Uno di voi, piccoli fiammeggianti garofani, lo prendo con me, lo infilo all’occhiello e me lo porto là, in quell’altro mondo, nelle città, nell’inverno, nella civiltà” (Autunno. Natura e letteratura).
 
La letteratura buona è intrecciata con la natura, la osserva, la rincorre, potenzia la fuvsi" di chi osserva con amore la vita e legge i libri con amore. Tutto è collegato e interferisce con tutto.
In quelle tardi estati degli anni Cinquanta stavamo per tornare a Pesaro. Ebbene quei fiori rossi mi facevano pensare a una bambina di Pesaro dai capelli rossi. Preludeva a Päivi che avrei incontrato 20 anni più tardi a Debrecen. Nel grande bosco e nelle aiuole della città i fiori rossi non mancavano.  
 

Bologna 18 gennaio 2022 ore 11, 20
giovanni ghiselli
 
p. s.
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[1] Le orecchie di Hermes, p. 242.
[2] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 247. E’ Peeperkorn che parla
[3] O. Wilde, De profundis, in Wilde, Opere, p. 70.

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