Publio Terenzio Afro |
Aeschinus, Demea, Syrus, Geta
Eschino esce dalla casa di
Micione: parla tra sé e biasima il fatto
che gli altri in adparando consumunt diem
(900) esauriscono la giornata nei preparativi.
In queste parole c’è il tema del tempo prezioso, piuttosto fuori luogo in un giovane senza un’occupazione seria come sono tutti questi ragazzi “di buona famiglia” della commedia nuova greca e di queste latine.
Secondo Seneca il tempo è l’unico bene veramente posseduto da ciascuno di noi finché resta in vita : “Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est (Ep. 1, 4).
Con il matrimonio invero il tempo di una persona non è più tutto suo: non può dedicarlo in gran parte a se stesso, alla popria crescita, al proprio lavoro. O, se lo fa, deve trascurare moglie e figli.
Arriva Demea e il figlio lo chiama pater mi, sebbene affettivamente il padre suo sia Micio.
Demea riconosce in pieno la propria paternità di Eschino, il suo essere padre del tutto: “Tuos hercle vero et animo et natura pater” 902 dice, e aggiunge: “qui te amat plus quam hosce oculos”, un’iperbole di affetto. L’ eccessivo è sempre sospetto.
Non dire : “amo”, bensì “fai amo”.
Eschino esita a chiamare in casa Panfila a causa della presenza di donne mal reputate o addirittura malfamate: tibicina et hymenaeum qui cantent (905) la suonatrice (prima di cetra ora di flauto-tibia e chissà di cos’altro) e le coriste del canto nuziale.
Demea consiglia a Eschino di lasciar perdere tutta l’inutile pompa della festa nuziale e di far abbattere il muro che nell’orto divide la casa di Micione da quella di Sostrata: “ unam fac domum” 909. Una forma di comunismo limitato a due famiglie con i rispettivi servi- familiare-
Eschino ne è molto contento: “Placet, pater lepidissime” 910, buona idea padre davvero carino.
Demea è tutto contento di tale reazione del figlio e dice tra sé: “Euge! Iam lepidus vocor!” 911, evviva! Già vengo chiamato carino.
La casa di mio fratello diventerà accessibile fratres aedes fient perviae -912- si porterà dentro una folla et sumptu amittet e con le spese avrà delle perdite. Quid mea? A me che importa?
A Demea importa la crescita degli affetti e della buona reputazione che lo riguardano: “Ego lepidus ineo gratiam” 914, io sono considerato carino ed entro nella simpatia.
Lascia pure che quel nababbo (Micio) sborsi venti mine.
Quindi Demea chiede a Syro di sbrigarsi: vada e fare quanto lui ha proposto: Dirue 916- abbatti il muro.
Il muro è simbolico di una divisione non solo fisica ma pure mentale e affettiva. Oggi anche culturale, religiosa, razziale.
Nel mio condominio quasi tutti gli appartamenti di questa piccola borghesia hanno cancelli di ferro fissati davanti alla porta. La mia è una delle poche priva di questa seconda barriera. Io anzi posso lasciare anche la porta aperta: i libri non fanno gola a nessuno, quasi a nessuno, certo non ai malviventi.
Geta benedice Demea constatando la sua benevolenza verso tutta la familia di Sostrata. Il vecchio ne spiega la ragione: “dignos arbitror” 919, ve lo meritate, Aggiunge che la ragazza fresca di parto e sofferente non deve passare per la strada.
In fondo il figlio che Panfila ha appena messo al mondo significa il proseguimento della vita del nonno sulla terra.
La vita di Demea, di Micione e di Eschino in sé significa poco o niente. Magari quel bambino diventerà un altro Scipione Africano spereranno costoro.
Eschino conferma e rafforza l’approvazione: “Nihil enim melius vidi, mi pater” (922)
Demea risponde: “sic soleo” faccio così oramai per abitudine. Insomma sono cambiato. Infine annuncia l’arrivo di Micio che sta uscendo da casa sua (922)
Bologna 5 gennaio 2022-01-05 ore 17, 01
giovanni ghiselli
In queste parole c’è il tema del tempo prezioso, piuttosto fuori luogo in un giovane senza un’occupazione seria come sono tutti questi ragazzi “di buona famiglia” della commedia nuova greca e di queste latine.
Secondo Seneca il tempo è l’unico bene veramente posseduto da ciascuno di noi finché resta in vita : “Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est (Ep. 1, 4).
Con il matrimonio invero il tempo di una persona non è più tutto suo: non può dedicarlo in gran parte a se stesso, alla popria crescita, al proprio lavoro. O, se lo fa, deve trascurare moglie e figli.
Arriva Demea e il figlio lo chiama pater mi, sebbene affettivamente il padre suo sia Micio.
Demea riconosce in pieno la propria paternità di Eschino, il suo essere padre del tutto: “Tuos hercle vero et animo et natura pater” 902 dice, e aggiunge: “qui te amat plus quam hosce oculos”, un’iperbole di affetto. L’ eccessivo è sempre sospetto.
Non dire : “amo”, bensì “fai amo”.
Eschino esita a chiamare in casa Panfila a causa della presenza di donne mal reputate o addirittura malfamate: tibicina et hymenaeum qui cantent (905) la suonatrice (prima di cetra ora di flauto-tibia e chissà di cos’altro) e le coriste del canto nuziale.
Demea consiglia a Eschino di lasciar perdere tutta l’inutile pompa della festa nuziale e di far abbattere il muro che nell’orto divide la casa di Micione da quella di Sostrata: “ unam fac domum” 909. Una forma di comunismo limitato a due famiglie con i rispettivi servi- familiare-
Eschino ne è molto contento: “Placet, pater lepidissime” 910, buona idea padre davvero carino.
Demea è tutto contento di tale reazione del figlio e dice tra sé: “Euge! Iam lepidus vocor!” 911, evviva! Già vengo chiamato carino.
La casa di mio fratello diventerà accessibile fratres aedes fient perviae -912- si porterà dentro una folla et sumptu amittet e con le spese avrà delle perdite. Quid mea? A me che importa?
A Demea importa la crescita degli affetti e della buona reputazione che lo riguardano: “Ego lepidus ineo gratiam” 914, io sono considerato carino ed entro nella simpatia.
Lascia pure che quel nababbo (Micio) sborsi venti mine.
Quindi Demea chiede a Syro di sbrigarsi: vada e fare quanto lui ha proposto: Dirue 916- abbatti il muro.
Il muro è simbolico di una divisione non solo fisica ma pure mentale e affettiva. Oggi anche culturale, religiosa, razziale.
Nel mio condominio quasi tutti gli appartamenti di questa piccola borghesia hanno cancelli di ferro fissati davanti alla porta. La mia è una delle poche priva di questa seconda barriera. Io anzi posso lasciare anche la porta aperta: i libri non fanno gola a nessuno, quasi a nessuno, certo non ai malviventi.
Geta benedice Demea constatando la sua benevolenza verso tutta la familia di Sostrata. Il vecchio ne spiega la ragione: “dignos arbitror” 919, ve lo meritate, Aggiunge che la ragazza fresca di parto e sofferente non deve passare per la strada.
In fondo il figlio che Panfila ha appena messo al mondo significa il proseguimento della vita del nonno sulla terra.
La vita di Demea, di Micione e di Eschino in sé significa poco o niente. Magari quel bambino diventerà un altro Scipione Africano spereranno costoro.
Eschino conferma e rafforza l’approvazione: “Nihil enim melius vidi, mi pater” (922)
Demea risponde: “sic soleo” faccio così oramai per abitudine. Insomma sono cambiato. Infine annuncia l’arrivo di Micio che sta uscendo da casa sua (922)
Bologna 5 gennaio 2022-01-05 ore 17, 01
giovanni ghiselli
Nessun commento:
Posta un commento