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Eschino insiste: Fac, promisi ego illis, fallo, gliel’ho promesso.
Questo ragazzo educato in maniera permissiva ha commesso una prepotenza, un sopruso verso il suo educatore approfittando dell’amore che questo prova per lui.
Micione si risente non a torto: “Promisisti autem? L’hai pure promesso? De te largītor, puer, fai donazioni a spese tue, giovanotto.
Demea sostiene il figlio dicendo che potrebbe chiedere anche di più allo zio. Insomma i due congiurati presentano il conto dell’affetto che Eschino ha dato al padre adottivo. Un affetto non gratuito evidentemente. E’ il do ut des che i latini usavano anche nei confronti della divinità. Cfr. Catullo. “ O di, reddite mi hoc pro pietate mea " (76, 26). Una pietas pelosa seppure non spietata quanto quella di enea.
Micione commenta esclamando: “quasi non hoc sit maximum!”, come se questa non fosse la pretesa più grande possibile!
Chiedere a un uomo abituato a stare solo di prendersi in casa un’altra persona che non sia un servitore equivale a condannarlo a morte. Padre e figlio si stanno comportando da tiranni, ricattatori e potenziali assassini. Questo finale è forzato, il cambiamento di Demea, poi quello di Micione non è naturale.
Si deve fare a Terenzio la critica che Aritotele rivolge a Euripide per l’incoerenza di Ifigenia quando la ragazza in Aulide cambia del tutto parere sulla propria volontà di vivere
La protagonista eponima dell’ Ifigenia in Aulide costituisce un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, Poetica, 1454a, 31).
Obietto che l’incoerenza in un’adolescente è naturale e plausibile mentre non lo è in un ultrasessantenne benestante che prima apprezza i vantaggi del celibato poi si lascia dare l’ordine di rinunciarvi da un nipote che gli chiede il sacrificio della propria vita per compiacere la ragazza che ha appena sposato senza nemmeno conoscerla e la madre di lei. Questa ultima parte della commedia proprio non funziona bene.
Se Terenzio ha dovuto concludere il dramma con questa svolta innaturale per ragioni politiche, o per compiacere il pubblico o per qualunque altra ragione estranea all’arte, doveva per lo meno farlo attraverso il deus ex machina: le conversioni dei due fratelli, e soprattutto quella di Micione, sarebbero state meno incomprensibili, sebbene un vero Micione richiesto di sposarsi avrebbe detto di no anche a un dio.
Padre e figlio insistono perché Micione sposi Sostrata. Il loro zio e fratello incalzato dai due congiunti prova ancora a dire: non omittitis? (942), non la smettete? Eschino risponde: “non, nisi te exōrem”, no, se non ottengo quello di cui ti prego.
Questo ragazzo non ha nessun riguardo per lo zio e l’affetto che precedentemente conclamava evidentemente non era sentito o per lo meno non è più sentito.
Micio ha un momento di lucidità quando dice al nipote: “Vis est haec quidem” , ma questa è violenza. Un educatore dovrebbe rifiutare al giovane quanto viene chiesto con sfacciataggine e violenza.
Demea lo tratta addirittura da bambino: age prolixe, Micio, su, fai il bravo Micione.
Micio a questo punto sente di non avere scampo e fa contro voglia quanto i due consanguinei aguzzini gli impongono. L’altro nipote, Ctesifone, non gli viene in mente, perché non ha confidenza con lui, poi sa bene che intento a sollazzarsi con un’etera com’è, non si metterebbe certo contro quegli altri due questuanti importuni e prepotenti
Il poveretto a questo punto dunque si arrende: “Etsi hoc mihi pravom, ineptum. Absurdum atque alienum a vita mea-videtur, si vos tanto opere istuc voltis, fiat” (944-945) , sebbene questo mi sembri una depravazione, una follia, un nonsenso, e una cosa estranea alla vita mia, se voi lo volete con tanta insistenza, sia fatto
Contro il matrimonio
Contro il matrimonio quale esperienza inconciliabile con ogni grandezza si esprime il principe Andrej di Guerra e pace che dice all'amico Pierre:" Non ti venga mai in mente di sposarti, mio caro; questo è il mio consiglio, non prender moglie finché non avrai potuto dire a te stesso che hai fatto tutto il possibile per evitarlo (…) Sposati da vecchio quando non sarai buono a nulla (...) Altrimenti andrà perduto tutto ciò che in te è buono ed elevato. Tutto si disperderà in piccolezze"[1] .
Il timore del rischio di perdere una possibilità di vita, se non eroica, certo meno insignificante di quella del marito borghese viene manifestato anche da Kafka nella Lettera al padre :"Perché, dunque, non mi sono sposato? L'impedimento essenziale, purtroppo indipendente da ogni singolo caso, era che io, non v'è dubbio, sono spiritualmente incapace di sposarmi (...) ho già accennato che con lo scrivere e tutto ciò che vi si ricollega ho fatto alcuni mediocri tentativi di indipendenza e di evasione, ottenendo scarsissimi risultati (...) Ciò nonostante è mio dovere, o piuttosto è la mia vita stessa a vegliare su essi, impedire per quanto sia in me che un pericolo, anzi la sola possibilità di un pericolo, li possa sfiorare. Il matrimonio è la possibilità di un tale pericolo"[2].
Per contro nei Diari , in data 19 gennaio 1922, Kafka denuncia la fatica di vivere dello scapolo"Felicità infinita, calda, profonda, redentrice, di star vicino alla cesta del proprio bambino di fronte alla madre. C'è anche un pò del sentimento che dice: Tu non conti più, a meno che tu lo voglia. Per contro il sentimento di chi non ha figli dice: Tu conti sempre, volere o no, ogni istante sino alla fine, nello strazio dei nervi, sempre tu conti e senza risultato. Sisifo era scapolo"[3].
Svevo, nel racconto Corto viaggio sentimentale , rappresenta un uomo anziano, il signor Aghios, che pensa alla libertà negata dal matrimonio:"Venticinque anni prima il signor Aghios s'era scelta la consorte. Quale gioia quando, vincendo ogni difficoltà, egli era arrivato a dirla sua, trovando naturale che, in compenso, egli appartenesse a lei. Egli era stato felicissimo. Oh! tanto! Nella grande libertà del viaggio egli tuttavia pensò che se venticinque anni prima, invece che sentire il bisogno di sposarsi, egli avesse sentito l'istinto del malfattore e l'avesse soddisfatto con un omicidio, certo a quest'ora, a forza di amnistie, egli sarebbe stato del tutto libero, magari di viaggiare"[4].
Ricordo pure C. Pavese il quale nega ogni possibilità di benessere nello stare con la donna:"E' carino e consolante il pensiero che neanche l'ammogliato ha risolto la sua vita sessuale. Lui credeva di godersela ormai virtuoso e in pace, e succede che dopo un po' viene il disgusto della donna, viene un sòffoco come di prostituzione soltanto a vederla. Ci si accorge allora che con la donna si sta male in ogni modo"[5].
E ancora:"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie-torna la feroce gioia, il refrigerio di esser solo. E' l'unico vero bene quotidiano"[6].
La gioia feroce della solitudine è quella del Misantropo di Menandro: Cnemone, come vede Sostrato davanti alla porta di casa sua invoca il suo bene supremo:" ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n " (v.169) non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!
Concludo con Il Gattopardo: “ L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui cos’era l’amore…E Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte (p. 49)
“Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere della passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli. Due settimane pima del suo matrimonio, sei settimane dopo, mezz’ora in occasione della nascita di Paolo” (p. 168)
Toniamo a Micione.
Il nipote lo approva e lo gratifica dicendogli che ha meritato il suo amore: “Bene facis; merito te amo” (945), fai bene, a ragione ti amo. Altrimenti non avrebbe avuto più ragione di amarlo.
Un nipote del genere andrebbe ripudiato e diseredato con un testamento negativo.
Bologna 6 gennaio 2022 ore 10, 37
giovanni ghiselli
[1]L. Tolstoj, Guerra e pace , trad. it. Garzanti, Milano, 1974, p. 41.
[2]F. Kafka, Lettera al padre , trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1976, p. 144 e sgg.
[3]F. Kafka, Diari , p. 592.
[4]In Italo Svevo, I Racconti, Rizzoli, Milano, 1988, p.438.
[5] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 8 agosto 1944.
[6]C.
Pavese, Il mestiere di vivere, 25 aprile, 1946.
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