Il giovane rosso di pelo e bianco di pelle mi venne vicino e domandò se avessi bisogno di qualcosa.
“No, guardo soltanto”, mi scusai come fanno i bambini.
Continuava a sorridermi, al pari di un fanciullo anche lui.
Mi accorsi che lo conoscevo e lo riconobbi. Venticinque anni prima era un bambino un po’ ritardato.
“Ciao Flavio - gli feci - come stai? Ti ricordi di me?”
“No, non mi pare”
Sono gianni di Pesaro: negli anni Cinquanta venivo a Moena in agosto, abitavo in via Damiano Chiesa. Correvamo a gara insieme con altri bambini intorno alla fontana del Turco. Eravamo piccoli allora. Che strano ritrovarci qui da adulti! Sono contento di rivederti”.
Continuava a sorridere. Teneva le mani nelle tasche. Aveva la stessa espressione di allora. Probabilmente anche io. In quel tempo ero un bambino che difficilmente sorrideva, anzi alle mie zie dicevano che sembravo spesso in procinto di piangere. Tuttora non amo le risate fragorose e non sorrido senza ragione quando mi fanno fotografie e mi invitano a farlo. Nemmeno nella foto dove mi rivedo infante sorrido.
Ho bisogno di un motivo serio per sorridere. L’allegria è una cosa seria, non una maschera per me.
“Ti posso offrire un bicchiere di vino, gianni?” domandò cotesemente Flavio come svegliandosi da un letargo durato trenta anni più o meno.
“Sì, grazie, Flavio, volentieri”. Entrammo nella malga deserta e ci sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo Rotaliano, vino del Concilio di Trento, roba da Controriforma. Pensai di nuovo alla pretglia carnefice dei miei sensi amorosi, ma il vino non era male.
“Raccontami qualche cosa di te e degli altri che giocavano con noi quando eravamo piccoli. Tu che hai fatto in tutti questi anni?”
Balbettando rispose che aveva lavorato come facchino in un paio di alberghi: a Moena e a Soraga. Aveva visto molta gente, brave persone.
Anche da bambino parlava poco e non diceva male di nessuno. Le zie lo definivano “strullo”. Secondo la Rina, la nostra capofamiglia, tutti i Moenesi erano piuttosto tonti, “come i mosconi di quassù intorpiditi dal freddo”, diceva mentre li abbatteva con un giornale. In effetti in casa nostra, e a Pesaro in generale, c’era più movimento, energia e nervosismo nel parlare e nell’agire delle persone.
Quando arrivai a Bologna dopo il liceo, nell’autunno del 1963, la prima impressione che mi fecero gli studenti padani fu quella di una maggiore lentezza mentale e corporea rispetto a noi cresciuti al confine tra Marche e Romagna.
Comunque Flavio mi era simpatico già allora: la sua lentezza e il suo sorriso mi trasmettevano un senso di pace e mi insegnavano qualcosa.
Rimasi lì a parlare e acoltarlo per un paio di ore. Mi raccontò alcune storie dei nostri compagni di giochi di allora. Non disse una sola parola malevola. Gli raccontai di me, delle mie storie e degli scolari che mi curavano l’anima. Gli chiesi se voleva cenare con me, a Moena. Rispose che doveva estare lì a custodire la malga e la chiesa. Se volevo potevo restare lì a cena. Ringraziai, ma avevo paura del buoio.
Sulla via del ritono, mentre si avvicinava la notte, mi domandai se quello “strullo” non fosse più buono e meno infelice di me.
Bologna 27 maggio 2021 ore 10, 12
giovanni ghiselli
p. s.
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