Una testa intronata tra spazi
ventosi. Quale strada, quale strada, quale? L’età del ferroL’età del ferro
Ci mettemmo sulla via del ritorno, attraverso l’Austria ovviamente
Ifigenia era muta e inespressiva come un baule. Quel suo viso da commediante era coperto da una maschera immota.
Allora la provocai. Volevo imparare comunque qualcosa.
Le domandai perché fosse venuta in Baviera con me e continuasse a frequentarmi se non aveva alcuna intenzione di comunicare tra noi, se non muoveva un dito per aitarmi quando mi vedeva in difficoltà.
Prima rispose: “Un dito non basterebbe, ci vorrebbe una centimane gigantesca per aiutare te.”
Poi, temendo che la facessi scendere dall’automobile, aggiunse: “Vengo con te siccome mi porti a vedere luoghi interessanti. Su quel lago, per giunta, abbiamo finalmente mangiato e dormito in un posto come si deve”.
Quindi il contentino finale: “e anche perché tu non sei un uomo qualunque, uno dei tanti”.
“Che io differisca in meglio dall’uomo comune non l’ho dimostrato ancora. Non a te. Del resto non me ne hai data occasione”
Ifigenia con calma e tristezza disse: “Se tu mi stimassi non mi faresti discorsi così poco belli. Se davvero tu sei quel genio che le donne della tua levatura hanno saputo trovare in te, lo farai vedere al mondo intero che certamente ti applaurirà.
Intanto però non tormentarmi: io ho tutta la vita davanti”.
“Che cosa vuoi che sia tutta la vita, povera carne mortale”, pensai
Sentivo che non credeva più in me.
Fermai la Volkswagen e scesi. Tirava vento.
“Sono una testa intronata tra spazi ventosi”[1] mi dissi.
“Un artista? Un intellettuale comunista? Macché: sono soltanto un borghese sviato.
Non so nemmeno su quale strada: tiv" ojdov", tiv" ojdov", tiv"; [2].
Ricordare Euripide mi diede una mano. Non dovevo arrendermi all’angoscia, mai. “Non cederò, non farò la fine di Ludwig” dissi e rientrai nell’automobile, rassegnato a quella compagnia finché c’era. Presto se ne saebbe andata via, magari con un Australiano o Neozelandese, il più lontano possibile. Allora avrei raccontato quello che mi aveva insegnato la maestra più vera: la vita. Amori e disamori, educazione buona e mala, studio e sport, cinema e teatro, politica, ascesi pagana e ascesi cristiana. Prima pero dovevo imparare dell’altro e non solo dai libri. Il rapporto malato che stavo vivendo da quando quella lì non aveva mantenuto la promessa di scrivermi non riguardava me solo: nel mio capolavoro avrebbe rappresentato, quale simbolo tragico, l’infelicità dei rapporti umani in un’età egoista, signoreggiata dal lucro, una nuova età del ferro dalla peccaminosità completa. Dove era impossibile per una persona proba, sensibile, intelligente fare una vita usuale, cioè usa all’indifferenza, alla mancanza di ogni significato bello, o addirittura al male.
giovanni ghiselli
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