frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia |
Camminava barcollando: talora pareva in procinto di stramazzare sul duro pavimento in tutta la sua lunghezza insopportabilmente affaticata; si inclinava su un lato e sembrava perdere del tutto il necessario equilibrio, ma un attimo prima di cadere, si raddrizzava di scatto, dando l’impressione che poco prima del tonfo doloroso, forse letale, era riuscito con uno sforzo titanico a trovare energia sufficiente per sollevarsi e procedere lungo il suo tribolato cammino. Suggeriva l’immagine di un eroe bersagliato dai colpi di un destino tenacemente feroce, eppure incapace di averla vinta su una pena tanto antica e temprata da infinite, enormi sciagure.
Come ci vide, mosse verso di noi: sapeva che non sarebbe stato respinto né trattato con scortesia. Può sembrare ovvio. Il minimo dovuto a un vecchio solo e infelice. Eppure a Bologna molti gli davano la baia, alcuni lo menavano addirittura. Fin da quando e frequentavo le prime lezioni, diciannovenne nel novembre del 1963, l’avevo notato entrare nelle aule frequentate da matricole, ragazze e ragazzi che potevano essere almeno suoi figli. Andava a sedersi in fondo alle aule, maltollerato dai professori a parte don Paolino Serra Zanetti che era un santuomo oltre che un prete e un docente: lo faceva accomodare con tutti i riguardi dovuti a un infelice.
Spesso Mario si addormentava,
Io ne ero incuriosito e un poco inquietato. Quando mi si avvicinò, pensai: “ecce homo!”.
Temevo che prefigurasse il mio futuro. Gli domandai come stesse. Si irritò e rispose: “come puoi farmi una domanda del genere”? Non vedi come sto? Orribilmente sto”
“Posso aiutarla?” gli feci
“No, nessuno può aiutarmi. Tu comunque non sei cattivo.”
Dopo quell’approccio veniva sempre a salutarmi e sebbene ne avessi un po’ di paura, non mi dispiaceva perché imparavo e capivo tante cose di me stesso da lui.
Provavo sdegno per quanti lo deridevano e lo maltrattavano, aggiungendo magari, se provavo a difenderlo, che ero simile a lui.
“Preferisco assomigliare a quest’uomo piuttosto che alla canaglia di chi lo maltratta” rispondevo. Seguiva una grandinata di insulti.
Nemmeno i camerieri di Lamma gli risparmiavano motteggi e gomitate.
Come fu giunto al nostro tavolo, Mario mi salutò e , invitato, sedette.
Gli facevo domande e lo ascoltavo con attenzione perché sapevo che aveva bisogno di questo. Non voleva mangiare né bere. Le sue frustrazioni di fondo erano due: non avere scritto un capolavoro e non avere mai baciato una donna. Gli domandai per quali cause non aveva potuto soddisfare queste aspirazioni dato che non gli mancava niente.
Fulvio nel 1966 mi aveva aiutato facendomi una domanda del genere.
Ma allora avevo ventun anni e potevo recuperare.
“A ventanni mi è caduta la mannaia sul collo”, rispose Mario, quindi proseguì ricordando le leggi razziali, i parenti che non gli volevano bene e non lo avevano aiutato. Tutto gli aveva spezzato il talento e la vita. Neppure se stesso volle assolvere: il colpo di grazia se lo era dato da solo.
“Sono io l’omicida di quest’uomo””, disse puntando l’indice contro di sé. Si era ucciso mentalmente quando aveva messo in mani cattive il potere sulla propria persona
“Tu non farlo mai, Mai!”, gridò con tono ieratico, fissandomi con i grandi occhi spalancati. Trasfigurato sembrava ancora più alto a vedersi, e parlava come ispirato dalla potenza molto vicina di un dio.
“Qualunque sciagura possa capitarti, tu non devi cedere ai mali e soprattutto non tradire te stesso!”.
Non aveva scritto il capolavoro che aveva dentro, eppure nella sua voce, nella sua parola avvertivo qualche cosa di ispirato, divinamente ispirato.
Bologna 16 maggio 2021 ore 19, 43.
giovanni ghiselli
p. s.
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