Il due marzo andai a sciare sull’alpe di Pampeago, sopra Predazzo.
Sulle piste tirava un vento gelato. Nuvole cupe coprivano il cielo. Avevo cambiato disposizione mentale, e non in meglio.
Quando non abbiamo affetti sicuri e uno stato emotivo che si confà a tale certezza, siamo in balia del brutto tempo anche perché ce l’abbiamo già dentro.
Sul mezzogiorno non ne potevo più di soffrire il freddo e il buio di quella giornata orribile, sicché entrai in un rifugio di latta e di legno riscaldato con una stufa. Quando fui seduto con una bottiglia di birra , una radio diffuse il canto a me sacro di Helena biancovestita; : “Summertime, when the living is easy”. Mi apparve subito il suo volto lieto nella notte d’estate mentre camminavamo nella foresta spessa e viva tra gli alberi antichi tra le cui foglie biancheggiava a tratti la luna e comparivano ora sì ora no le facelle celesti, vaghe e luminose come occhi di fanciulle assai contente di un avvenire immaginato pieno di amore.
Dalla memoria gocciava nell’anima il ricordo di quei giorni lontani un decennio oramai. Li ricordavo come i più belli della mia vita mortale. Li confrontai con quelli dell’ultimo mese dalle giornate piene di tristezza e di noia. Era cambiata in peggio non solo la mia situazione personale ma anche quella politica. C’erano state diverse stragi e la destra degli affaristi, dei guerrafondai e degli strozzini acquistava sempre più credito nel mondo occidentale. L’attore Reagan che recitava la parte del liberalista e diffondeva l’ideologia del diritto della forza spietata si stava avvicinando al potere.
Ricordavo il mese estivo di Debrecen del 1971 come una gioiosa e variopinta festa panatenaica. Era una gioia vedere Elena, andare a zonzo ogni giorno con lei, parlare delle nostre vite e culture lontane, diverse, imparando tante cose; era possibile e lecito lasciarsi andare, sia pure con garbo e con spirito. Si poteva parlare, scherzare, ridere come bambini, senza sfiducia né sospetti. Poi era estate: i dì scorrevano lisci, senza dolore, senza affanni, sfiducia, sospetti, dalla mattina nelle aule universitarie, al pomeriggio in piscina, alle lunghe sere illuminate da tramonti purpurei pieni di voli. Eravamo tanti giovani europei in vacanza e ci godevamo la vita, fraternizzando. I miei amici c’erano ancora tutti. Ci volevamo bene, ci aiutavamo, ci educavamo a vicenda. Io imparavo quando giocando con loro e quando gioivo con Elena. Pensai che dovevo raccontare la storia di quell’estate come monumento alla felicità perduta di quel tempo incantato. Breve purtroppo. Nel giro di un paio di anni il mondo si sarebbe involgarito e intristito.
Negli ultimi mesi passati con Ifigenia dovevo misurare ogni parola, ogni gesto siccome colei era pronta a criticarmi, a infamarmi, per sospetto che io volessi fare altrettanto e di peggio nei suoi confronti.
Confrontai le due situazioni distanti dieci anni nel tempo ed ere nei fatti, nei sentimenti, e piansi di nostalgia.
Pensavo anche alle lunghe guerre che avevo dovuto combattere contro avversità dolorose.
Avevo ottenuto qualche successo parziale tanto nell’amore quanto nel lavoro, anche due o tre trionfi, ma la vittoria completa mi era sfuggita sempre. I miei dolori triumphati magis quam victi sunt[1].
Mi consolai pensando che non avevo fatto del male e qualche progresso c’era stato comunque. Non ero cattivo e non ero fallito del tutto.
Terminata la canzone antica e finita la birra, uscìi da rifugio un poco ebbro. Il cielo si stava rischiarando e dalle nuvole sbucavano dei raggi: le montagne sfavillavano liete come appariva la santa faccia del dio.
Rimasi fermo a osservare finché provai un sentimento buono di gratitudine per la natura, per tutte le crature umane che mi avevano accolto con simpatia e per la vita stessa che non mi aveva mai rinnegato del tutto.
Bologna 21 maggio 2021 ore 10, 21
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Sui miei dolori erano stati celebrati trionfi più che vere vittorie. Cfr. Tacito, Germania, 37, 5.
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