Si scaglia prima contro la madre di Riccardo: “dalla tana del tuo ventre-le dice- è sortito un cagnaccio infernale che dà a noi tutti una caccia mortale (IV, 4, 46-47) un cane che prima degli occhi ebbe i denti to worry lambs, and lap their gentle blood (50) per azzannare gli agnelli e lappare il loro dolce sangue.
Le dimore di queste mogli e madri di re grondano sangue come il palazzo di Agamennone dove Cassandra grida: “Venere fata. Sanguinem extremae dapes, - domini videbunt et cruor Baccho incidet” (Seneca, Agamennone, 885-886), il destino è arrivato. Le ultime portate vedranno il sangue del padrone e dal corpo sul vino.
Nell’Agamennone di Eschilo Cassandra condotta da Clitennestra alla dimora degli Atridi grida ajndrosfagei`on kai; pevdon rjanthvrion (1092) mattatoio di uomini e suolo bagnato di sangue.
Margherita prosegue chiamando Riccardo excellent grand tyrant of the earth (51) straordinario, grandioso tiranno della terra, turpe sfregiatore della creazione divina che venne sguinzagliato dal grembo della duchessa di York accusata quale madre di questo carnal cur (56) cagnaccio carnivoro che strazia la prole della madre così costretta a sedere sul banco dei lamenti accanto alle altre donne da lui orbate.
Il tiranno è un mostro anche nella storia (lo abbiamo indicato in Erodoto e Livio), nelle tragedie come p. e. Lico nell’Eracle di Euripide e in Platone.
Nella Repubblica di Platone, Er ricorda il grande (nel male) Ardieo ( jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano mai risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavno alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to). Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e rigettati nel Tartaro.
La duchessa chiede a Margherita di non esultare sui propri affanni perché lei ha pianto per i suoi.
Margherita le chiede di avere pazienza: “I am hungry for revenge” (61), sono affamata di vendetta. L’ybris presente nella stirpe dei Plantageneti ha podotto messi di odio, dolore e lacrime.
Margherita torna a nominare vittime e carnefici dallo stesso nome-Edoardo- e dalla stessa sorte. Sono morti anche molti spettatori di tante uccisioni. Rimane però in vita Riccardo hell’s black ientelligencer (71) il tenebroso agente segreto dell’inferno. Si pensi alle stragi perpetrate in Italia. Lo hanno mandato sulla terra per comprare anime e spedirle laggiù.
Ma la terra già spalanca la bocca earth gapes- la bocca spalancata significa il Caos - cavskw = sto a bocca aperta-, l’inferno brucia, i diavoli ruggiscono, i santi pregano per la rimozione di questo demone dalla terra.
Cfr. il caso di Ardieo nel mito di Er citato sopra.
Margherita spera di vivere abbastanza da poter dire: “The dog is dead” (78), il cane è morto. Mi è congeniale il fatto di reputare male i cani che considero per lo meno fastidiosi e spesso pericolosi.
Voglio dunque supportare questa antipatia che mi rende antipatico ai cinofili citando anche un moderno.
In una tragedia dell’elisabettiano leggiamo una nenia funebre cantata da Cornelia "in vari modi di follia", sul cadavere del figlio Marcello, ucciso dal fratello Flaminio:" chiamate il pettirosso e lo scricciolo, che volano sopra i boschetti ombrosi, e con foglie e fiori coprono i corpi soli al mondo degli insepolti. Chiamate al suo lamento funebre la formica, il topo dei campi e la talpa, che levino mucchi di terra per tenerlo caldo e quando le ricche tombe vengono depredate non soffra danno: ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà (But keep the wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up again)"[1].
Devo aggiungere T. S. Eliot che ha inserito gli ultimi due versi-cambiando la parola "wolf" (lupo) in "dog" (cane), e la parola "foe" (nemico) in "friend" (amico)- nella prima parte di The Waste Land, (vv. 74-75).
Io credo invece che il cane grosso e male educato dal padrone ad aggredire gli uomini non sia amico dell’uomo più del lupo. Per lo meno non sono mai stato inseguito da lupi, da cani inferociti diverse volte. Ma Dio mi aiutò e mi salvò.
Vediamo alcune parole di Elisabetta, la moglie del re morto Edoardo IV. Vi compaiono due altri animali mal reputati. La cognata di Riccardo lo definisce that bottled spider, the foul bunch-back’d toad (81), quel ragno tumefatto, quel mostro gobbo. I ragni non mi piacciono, ma non li ammazzo, mentre se avessi avuto una rivoltella mi sarei difeso con questa dai cani inseguitori inferociti e assetati del sangue mio preso per Atteone, il cugino di Penteo, sbranato dai cani
I batraci invece mi sono simpatici e le rane ancora di più perché li associo alla stagione bella a una commedia di Aristofane, alla poesia di Teocrito, Leopardi e D’Annunzio. Poi perché come dicono quuesti poeti sono animali discreti, che rimangono lontani.
La rana lontana
Il coro secondario delle rane di Aristofane comincia a fare il suo verso, il canto libero della natura
Dioniso cerca di fare tacere il coax, ma quelle continuano come nei bei giorni di sole o quando feuvgonteς o[mbron (Rane, 246), fuggendo la pioggia nel fondo ejn buuqw'/ intonano un’acquatica aria di danza. Le rane stanno in fondo, lontane come la verità.
In Teocrito, la rana canta thlovqen da lontano (Idillio VII, Talisie 140)
Leopardi: “ascoltando il canto/della rana rimota alla campagna” (Le ricordanze 12-13)
In La pioggia nel pineto di D’Annunzio“la figlia/ del limo lontana/ la rana/ canta nell’ombra più fonda” 90-93
Bologna 29 maggio 2021 ore 12, 22
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] J. Webster, Il diavolo bianco (del 1612), I, 2.
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