martedì 18 maggio 2021

Il viaggio nella Baviera di Ludwig. Parte IX

Conclusione a Bologna, da Lamma con Mario e Ifigenia

 
Mario aveva ragione. Lo capivo bene. Anche io, una ventina di anni prima avevo fatto uno sbaglio quasi irrimediabile. Invece di valorizzare le mie qualità tenendo gli occhi aperti sul vasto mondo, mi ero lasciato deprezzare e avvilire da persone mediocri del tutto adattate a un ambiente meno che meschino. Mi giudicavano brutto e incapace. In effetti di essere come loro non ero capace. Feci lo sbaglio di provarci e mi riempii di insuccessi, ridicolo, frustrazione e disprezzo da parte di coloro, e ancor più da parte mia. Provavo a fumare e tossivo, a giocare le carte, trasognatamente, e queste mi cadevano di mano, a mangiare senza fame e ingrassai venti chili.
Quello che sapevo fare bene lo trascuravo poiché i precedenti successi scolastici, ciclistici e podistici mi avevano tirato addosso maledicenze e maledizioni. Mi ero spaventato dell’isolamento dove mi lasciava la gente zotica e vile del borgo per il fatto che primeggiavo nel liceo Mamiani di Pesaro e sulle salite panoramiche pedalate con forza e agilità. E pure con gioia. Arrivarono a chiedermi di non partecipare più alle gare. Ero diventato brutto assai perché non credevo più in me stesso. Finito il liceo, avevo rinunciato alla soddisfazione di essere raro, diverso dalla gente usuale. La mia desolazione soddisfaceva molti che non mi volevano bene e contagiava i pochi che prima della caduta me ne volevano. Mi massacrarono finché lasciai fare. I malevoli utilizzavano la mia complicità contro la mia stessa persona per farmi del male. Mi addentarono, mi squarciarono come un branco pronto a sbranare l’animale più forte quando, ferito, sanguina e perde le forze. Ma dopo un paio di anni reagii, mi rialzai con uno sforzo titanico  e iniziai a recuperare la mia vita, per giunta purificata dagli eccessi che erano stati latori di invidia.

Mi aiutò l’ambiente internazionale di Debrecen dove i punti di vista erano tanti e servì a sprovincializzarmi, a liberarmi dalle superstizioni del borgo, in quella università estiva dove passai diversi mesi in anni diversi mi diedero valide mani persone buone: Fulvio prima di tutti e anche altri ricordati con affetto nelle storie di Debrecen. Poi il movimento del ’68, poi le amanti cercate e trovate in vari luoghi  d’Europa, poi l’insegnamento. Che Dio benedica questi miei angeli benefattori. Dopo il primo anno di insegnamento avevo recuperato buona parte del favore di me stesso e avevo ripreso in mano le redini della mia vita. Il sole brillava di nuovo sulla mia persona e quando non avevo a portata di mano uno specchio guardavo con simpatia compiaciuta la mia ombra[1].
Mario invece si accusava di avere sotterrato i propri talenti commettendo un peccato mortale: “et timens abii et abscondi talentum meum in terra[2], disse.
Ifigenia non lo ascoltava né gli rivolgeva lo sguardo. Per gente come lei un uomo del genere non ha nulla di interessante. La gente, dico, che ha decollato Giovanni Battista e crocifisso Gesù il Cristo.
Quanto diceva il mio amico vecchio non la riguardava. Pensava che lei mai e poi mai avrebbe sciupato il suo talento, forse anche perché sentiva di non averlo. Guardava in giro cercando di evitare la compagnia di Mario e la mia. Io trovavo più interessante e pregevole il vecchio, lunatico come il re di Baviera.

Mi torna in mente una sera di giugno dell’anno di mia salvazione 1978.
Ero seduto da Lamma con Luciana, un’ex allieva che, ventenne, era venuta a trovarmi. Anche quella sera remota entrò Mario con aria investigativa. Ci vide, si avvicinò, e, invitato, sedette con noi. La ragazza lo ascoltava con attenzione, lo guardava con simpatia e gli chiese di rimanere , di mangiare e bere qualcosa quando lui accennò ad alzarsi forse temendo di essere importuno. Il vecchio ne fu contento. Come se ne fu andato, Luciana disse che quell’uomo aveva suscitato il suo interesse e la sua compassione. Al lume della luna ne pianse. Era di tutt’altra stoffa spirituale la giovane amica. Sapeva provare pietà: era dotata di immaginazione.
Ma torno al 1981 e termino la storia del viaggio in Baviera.
Finita la cena, riportai Ifigenia a casa sua e tornai nella mia. Scrissi qualche parola su quell’esperienza tutt’altro che insignificante per me e credo anche per chi ora mi legge. Mi tormentava il pensiero che avrei potuto fallire i bersagli come Ludwig II Wittelsbach, re di Baviera, e come Mario Levi, ebreo di Ferrara trasferito a Bologna. Anche io al pari di loro puntavo il mirino sull’arte e sull’amore. Quello di Ifigenia era già andato a male, quelli precedenti erano finiti da tanto tempo oramai, però tutto era recuperabile nella grande opera d’arte che dovevo a me stesso e all’umanità. Dovevo trovare la forma capace di suscitare l’attenzione intelligente e commossa di quanto scrivevo. Per questo erano necessarie tante altre letture di autori accrescitori.
Moltiplicando i modelli avrei trovato il mio stile e la mia originalità[3].
 
Bologna 18 maggio 2021 ore 9, 58
 giovanni ghiselli

p. s
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[1] Cfr. Shakespeare Riccardo III, I, 2, 267-268
[2] Cfr. N. T. Matteo, 25, 25. 
[3] Posso "autorizzare" questa mia convinzione con l’appoggio di autori diversi. Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno. Giacomo Leopardi  dichiara di "aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità  quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.) Zibaldone, 2185-2186.

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