giovedì 27 maggio 2021

Shakespeare, "Riccardo III". Dodicesima parte. Il cortigiano preferito cade in disgrazia

Malvagità del potere non controllato

Rientra Buckingham per scusarsi  della sua indecisione  e reclamare il compenso, ma Riccardo non lo considera.
Piuttosto si rivolge a Stanley la cui moglie è madre di Richmond, un’altra persona assai temuta dal re per delle previsioni che ha sentito sul conto del figliastro di Stanley. Dicevano che sarebbe diventato re .
La madre dunque non deve mandare lettere al figlio: se lo farà, ne risponderà Stanley. Intanto Buckingham insiste, ma Riccardo non gli risponde finché gli domanda: what’s o’ clock?  (IV, 2, 106), che ore sono?
In tal mpdo esprime la massima indifferenza per le ripetute istanze del duca cortigiano  il quale risponde: “Upon the stroke of ten” (111), stanno per suonare le dieci E Riccardo: “well, let it strike” , bene, lascia che suonino. La più totale noncuranza del cortigiano caduto in disgrazia.
Ma a Buckingham non basta e domanda il perché della risposta sprezzante: “Why let it strike?”
Riccardo lo umilia dell’altro dicendogli: perché come l’automa dell’orologio tu continui a battere betwixt thy begging and my meditation, tra il tuo mendicare e il mio meditare. Quindi: I am not in the giving vein latino vena-today, non sono in vena di regali oggi (114-116).
Risposte sprezzanti che preludono all’uccisione della persona spregiata.
 
Un altro caso
Dopo la battaglia di Isso (333)  Dario III offrì ad Alessandro impegnato nell’assedio di Tiro una proposta di pace con la quale gli cedeva l’impero fino all’Eufrate. Allora Parmenione disse che se fosse stato lui Alessandro avrebbe accettato. Il Macedone  rispose che anche lui, se fosse stato Parmenione avrebbe fatto così. “kai; aujto;~ a]n, ei[per Parmenivwn h\n, ou{tw~ e[praxen 2, 25, 3), ma era Alessandro. Aggiunse che l’impero già comunque tutto suo. Parmenione verrà fatto ammazzare, come Buckingham.
 
Buckingham si umilia fino in fondo: “May it please you to resolve me in my suit?” (116) volete compiacervi di soddisfare la mia istanza?
Il re lo liquida: Thou troublestL. turba, Cf. Gk. tuvrbh, disorder-me, I am not in vein (117), tu mi secchi, non sono in vena.
Quindi Riccardo esce seguito da tutti tranne  Buckingham che, rimasto solo, finalmente si avvede del disprezzo con cui il re lo ha trattato mal ripagando i favori da lui ricevuti: “And is it thus? Repays he my deep service-which such contempt? L. contemptus scorn- Made I him King for this?” (119-120), Ah è così? Ripaga i miei preziosi favori con tale disprezzo? L’ho fatto re per questo?
Come poteva pensare che potesse trovarsi della gratitudine nell’anima di un uomo che non aveva esitato a uccidere il prprio fratello e gli aveva proposto di ammazzare i nipoti bambini? 
 
Excursus
Il potere assoluto non può essere buono
Nelle Storie  di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: " ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo:" uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei"
(III, 80, 6). Erodoto attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia degenera inevitabilmente in tirannide.   Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero parlato anche Megabizo, che propugnava l'oligarchia, quindi Dario, il quale  sosteneva la monarchia e l'inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell'aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori,  prevalse quest'ultimo con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca.
Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[1].
 Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro usa l'espressione pa'san kakovthta che, secondo il nobile persiano fautore dell' ijsonomivh, è conseguenza dell' u{bri", la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca  ( "uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80, 3).
 
Dante individua la presenza del vizio dell'invidia  soprattutto nei luoghi del potere:""La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio"[2].-
 
La  prima caratteristica del despota è  l'insofferenza dell'opposizione.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica:  sappiamo da Erodoto  che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era  scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:"oiJ uJpetivqeto..tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h) . Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").
Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole:" rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse "( Storie, I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
 Il tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
 
“Una forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una tendenza altrettanto forte al rifiuto di dominare e di comandare”[3] .
Sentiamo Bertolt Brecht:
“Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto, e mi hanno educato
nelle sbitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né essere servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
Con la gente del basso ceto”[4].
 
Credo di avere riconosciuto un’eco di questa  splendida affermazione nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve fare un discorso che legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla  come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I don’t want to be an emperor. That’s not my business. I don’t want tu rule or conquer anyone”, mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: “I should like to help everyone…greed has poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare tutti…l’avidità ha avvelenato le anime umane.
Fine excursus
 
Alla fine della seconda scena del IV atto Buckingham ricorda la decapitazopne di Hastings e  decide di rifugiarsi  nel castello avito di Brecknock nel Galles while my fearful head is on (121-122) finché la mia testa pericolante sta sul collo.


bologna 27 maggio 2021 ore 8, 58
giovanni ghiselli

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[1] Diodoro Siculo  racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq  j uJperevcein mhvq  j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.
Diodoro Siculo  racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq  j uJperevcein mhvq  j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.
[2] Inferno , XIII, vv. 64-66.
[3] Hannah  Arendt, Sulla violenza, p. 41. 
[4] Scacciato per buone ragioni in Poesie di Svendborg del 1939.

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