martedì 31 dicembre 2019

Debrecen. Capitolo 15. Un anniversario



Il 31 dicembre del 1981, qualche mese dopo la fine del nostro tumultuoso rapporto, Ifigenia mi telefonò. Voleva vedermi. Le dissi che l’aspettavo. Arrivò verso le dieci di sera. Quanto mutata da quella del novembre nevoso di tre anni prima che ho già raccontato! La vidi ingrossata nel corpo e indebolita nell’anima: parlava con sforzo e con stento. Il viso era ancora bello, sebbene alquanto afflosciato: le guance appesantite tendevano ad allungarsi cadendo verso il collo, la bocca molto dipinta era piuttosto slentata. Agli occhi mancava l’antica luce ricca di pathos. Sembrava che da quel volto non più teso e compatto fosse stato strappato un dente grande dalla radice profonda. La donna da poco tempo trentenne era pur sempre formosa e attraente ma doveva esserle accaduto qualcosa di doloroso. Avevo saputo solo che non faceva più l’insegnante e cercava un’altra strada. Sembrava non averla trovata. Mi raccontò che voleva tentare la danza, per la quale pensava di avere del genio.
Aveva già scagliato diverse frecce ma non aveva colpito il bersaglio. Le era sfuggita un’ occasione: lasciato il marito, aveva avuto una relazione con un danzatore famoso che dopo pochi passi fatti insieme l’aveva lasciata per un collega più famoso di lui. Nel raccontarmi questi fatti Ifigenia temeva il mio giudizio, ma senza ragione. Le dissi che io procedevo per la mia strada dove pure non mancavano ostacoli.
“Tu sai superarli” fece lei, benevolmente. “Finché non inciampo e vado a sbatterci contro” replicai. Sorrise.
La osservavo e la ascoltavo. Parlavamo senza infingimenti, come nel tempo dell’amore che pure era finito da tempo. Le proposi un giro sui colli.
La notte, stranamente, era dolce: soffiava uno scirocco caldo, quasi afoso e innaturale per l’ultimo giorno dell’anno
“Nell’aria c’è qualche cosa di magico” disse.
“Sì, andiamo sul monte Donato, quello della nostra salita ciclistica. Là potremo sentire  meglio gli odori di questo vento fatato”. Salimmo per via Siepelunga con la bianca Volkswagen. Arrivati sul colle, uscimmo dall’automobile e camminammo un poco nell’oscurità afosa e bagnata. Il cielo era marrone e striato di bianco, sebbene assai buio: potevamo vedere soltanto alcuni alberi lungo la strada.
“Sembrano soldati in marcia verso un massacro” disse.
La guardavo intensamente per vederla e comprenderla il più possibile prima di perderne la visione reale per chissà quanto tempo, magari per sempre. Le correnti della vita ci avevano allontanati già molto l’uno dall’altro e ci stavano portando in direzioni diverse, né potevano essere fermate.
Mi piaceva ancora, sebbene fosse molto lontana  dalla sua forma migliore
Il vento sciroccale le aveva appesantito i capelli che si trovavano schiacciati nella faccia e sul cranio, simili ad alghe marine. L’umidità della notte le aveva reso viscide e lucide le guance imbellettate, mentre la bocca, grande e amara, vistosamente dipinta, semi aperta, sembrava vicina a disfarsi. Tutto il suo volto ai miei occhi e al mio sentimento appariva come una maschera tragica.
“Dio salvala tu - pregavo - dalla rovina. Ti ho voluto bene, creatura, ho fatto tutto quanto potevo per aiutarti. Troppo poco. Tu non sei diventata la donna geniale e sicura che promettevi, non ti sei realizzata in maniera artistica come speravi: adesso, arrivata vicino ai trent’anni mi fai l’impressione una proletaria sviata. Nella tua debolezza, nei tuoi fallimenti però, conservi  comunque qualche cosa di bello”. Questo pensavo mentre la riaccompagnavo a casa. Poi sono tornato a casa mia, sono andato a letto e ho pensato con dolore e  rimorso al patrimonio di forza, di salute, di intelligenza, di gioia che avevamo sciupato e perduto negli anni passati insieme e finiti per sempre


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