venerdì 1 aprile 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte III

Pierre Peyro, La morte di Alcesti

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Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh verrà apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka" - hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962 - 972). Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo" , della poesia, dell'arte medica.
E ancora: la Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga;r Zeu;~ o{ti neuvsh/ - su;n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te (la Necessità) lo porta a compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.

Nella Prefazione al romanzo Notre - Dame de Paris, Victor Hugo scrive che “rovistando all’interno di Notre - Dame…trovò in un recesso oscuro di una delle torri, questa parola incisa a mano sul muro:
 ANAGKH
Ebbene, conclude la prefazione: “Proprio su quella parola si è fatto questo libro.
Marzo 1831”.

Alcuni versi prima, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/ )” ( Alcesti, vv. 785 - 786)

Prometeo, che toglie agli uomini la visione del destino e dona loro il pane terrestre, si comporta come il grande Inquisitore della leggenda di Ivan Karamazov il quale racconta ad Alioscia questo suo poema composto solo mentalmente. Il redentore era affamato dopo quaranta giorni e quaranta notti di digiuno. Il diavolo gli disse."Si Filius Dei es, dic, ut lapides isti panes fiant "[1], se sei figlio di Dio, di' che queste pietre divengano pani". E Cristo rispose."Non in pane solo vivet homo, sed in omni verbo, quod procedit de ore Dei " (4, 4), non di solo pane vivrà l'uomo ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio. Ebbene l'Inquisitore rinfaccia al Redentore questa scelta:"Ma Tu non hai voluto togliere all'uomo la libertà e hai respinto la proposta…La Tua risposta fu che l'uomo non vive di solo pane; sai Tu, però, che in nome di questo pane quotidiano si solleverà contro di te lo spirito della terra ed entrerà in lotta con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno…Si persuaderanno pure che non potranno mai essere liberi, perché sono deboli, viziosi, miserabili e ribelli. Tu hai promesso loro il pane celeste, ma - lo ripeto ancora - come potrebbe esso tornar gradito quanto il pane terrestre, agli occhi della debole, eternamente viziosa e ignobile razza umana?".
 Solo pochi essere forti e grandi sono capaci di intendere e seguire il Cristo. La gran parte dell'umanità non può capirlo. Né Lui può comprendere questa moltitudine. "A noi - continua il Grande Vecchio - invece, sono cari i deboli. Essi sono depravati e ribelli, ma, infine, i più obbedienti sarannno proprio loro. Essi ci ammireranno e ci considereranno come altrettanti dei, per aver consentito, dopo esserci messi alla loro testa, a prendere sulle nostre spalle il carico della libertà, della quale essi hanno avuto paura, e per aver consentito a dominarli; tanto tremendo finirà col sembrar loro l'essere liberi!…Per l'uomo rimasto libero non esiste una preoccupazione più assillante e tormentosa che quella di trovare al più presto qualcuno davanti al quale prosternarsi". [2]
Secondo Snell anche Prometeo si sobbarca il peso colossale della libertà"Nella contrapposizione di tevcnh e ajnavgkh viene data una concisa formulazione al conflitto tra conoscenza e fato, tra agire e soffrire, tra libertà e costrizione, che si trova pure nelle precedenti tragedie. Il peso della libertà è qui più grave che in tutte le opere anteriori…Poiché l’ambito, al quale il personaggio si sente legato e per il quale s’impegna, si è così smisuratamente allargato, ora la responsabilità pesa unicamente su di lui"[3].
E. Severino dà un’altra interpretazione“La somma potenza produttiva e distruttiva non è la tevcnh ma la Necessità: la tevcnh è il mezzo, lo strumento attraverso il quale la Necessità stabilisce la sorte dell’uomo. Anche per Eschilo ajnavgkh è Divkh: divkh è lo stesso apparire (divkh, deivknumi) di ajnavgkh. E la coscienza di questa necessità è la somma sapienza della filosofia”[4].

 Secondo Severino in questa tragedia sarebbe preannunciato il passaggio dallo Zeus del mito allo Zeus filosofo:” Eschilo apre la strada all’intera tradizione filosofica dell’Occidente…Eschilo sta dunque portando alla luce la differenza tra lo Zeus del mito e lo Zeus che è la forma più alta dell’essere ed è il contenuto del culmine della sapienza, cioè del dei`xai safw`~ della filosofia: lo Zeus che, come Prometeo, non è più dominato dalla u{bri~ ma dal culmine della sapienza, è dunque lo Zeus filosofo” (p. 125 - 126).

 Prometeo nell’esodo afferma di avere Zeus in pugno poiché, sebbene sia un tiranno aujqavdh~ (v. 907), narcisista, sta per celebrare delle nozze[5] che lo sbalzeranno dal trono secondo la maledizione di Crono. Nessuno degli dei tranne me, aggiunge il Titano, potrebbe indicargli una via di scampo da tali travagli con chiarezza: “toiw`nde movcqwn ejjktroph;n oujdei;~ qew`n - duvnait j a]n aujtw`/ plh;n ejmou` dei`xai safw`~” (vv. 913 - 914).
Severino interpreta questo dei`xai safw`~ come il “culmine della sapienza”. Egli assimila a questa espressione del Prometeo incatenato il “frenw`n to; pa`n[6] dell’Agamennone di Eschilo (v. 175), in entrambi i casi “il culmine della sapienza” che poi sarà chiamata filosofia”[7].
Invero si tratta di safev~ , ma anche se si trattasse di sofo;n , "to; sofo;n d jjj ouj sofiva" il sapere non è sapienza, come afferma nelle Baccanti (v. 395) di Euripide il coro, e comunque il sapere di Prometeo non è la sapienza di Zeus.


Vediamo nel dettaglio quali sono i doni del Titano alla razza umana. Innanzitutto egli rubò e donò ai mortali il fulgore del fuoco, padre di tutte le tecniche:"pantevcnou puro;" sevla" , - qnhtoi'si klevya" w[pasen[8]" (vv. 7 - 8). Il fuoco era fiore di Efesto (to; so;n ga;r a[nqo" , v. 7), ricorda Cratos, Dominio, uno dei due[9] sgherri di Zeus, a Efesto stesso che, pur impietosito, si accinge a inchiodare il Titano a una rupe della Scizia.
Il primo peccato di Prometeo è stato quello antiapollineo di avere tentato di annientare il principium individuationis che deve differenziare gli uomini dagli dèi.
"Il Prometeo di Eschilo è sotto questo aspetto una maschera dionisiaca"[10].

 A proposito di Dioniso e del principium individuationis, si pensi alle Baccanti: “ come il principio d’individuazione a cui l’uomo si aggrappa è una fragile ma rassicurante barriera che gli consente di essere e di pensarsi, così la tentazione di confondersi nuovamente con le primordiali forze della natura agisce pericolosamente sulla sua anima[11]. Stringere i legami tra sé e gli altri, scavalcare la barriera degli anni, che divide i giovani e i vecchi (come nella tragedia accade a Tiresia e Cadmo), superare le differenze sociali: ecco il richiamo che il culto di Dioniso propone a chi vi si abbandona”[12].
Io trovo che nelle Baccanti ci sia piuttosto un’individuazione settaria, di setta, con un’esclusione criminale degli altri e l’acquisizione di un’identità gregaria per quanti compongono il tiaso.
Odisseo sfugge sempre alla tentazione di perdere la propria identità.
Claudio Magris:"Come diranno più tardi Adorno e Horkheimer, l'io occidentale è simboleggiato da Odisseo, che costruisce faticosamente la propria identità ed il proprio dominio - su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso - rinunciando alle sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura". L'inversione di questo processo cui tende Nietzsche, continua Magris, è "lo scioglimento dionisiaco dell'io". Tale tendenza alla "dispersione dionisiaca dell'io nel fluire sensibile"[13] veramente è ben più antica di Nietzsche, però è condivisibile anzi è ineccepibile la collocazione dell'uomo Odisseo nella categoria dell'apollineo: egli è l'uomo che si individua nella conoscenza e nel dolore, quindi difende e mantiene il principium individuationis davanti a tutte le lusinghe e contro tutti gli assalti. L'Odissea è dunque "hjqikhv", fatta di caratteri, prima di tutto quello del suo protagonista, come la definiva già Aristotele[14], oltre che complessa per via dei numerosi riconoscimenti, a partire dall' ajnagnwvrisi" che di se stesso compie Odisseo. E attraverso la sua lettura tutti noi possiamo riconoscere qualche cosa di quello che siamo, arrivando alla scienza suprema, quella prescritta dall'oracolo delfico. "Conosci te stesso" è tutta la scienza . Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l'uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell'uomo"[15].


 L’ u{bri" di Prometeo è analoga a quella di Serse che cercò di unificare i mondi ben separati dell'Asia e dell'Europa volendo aggiogare al suo carro culture differenti e tentando perfino di mettere in ceppi l'Ellesponto, di prevalere su Poseidone e su tutti gli dèi.


continua



[1] Matteo, 4, 3.
[2] F: Dostoevskij. I fratelli Karamazov, pp. 320 e sgg.
[3] B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, pp. 122 - 123.
[4] E. Severino, Dall’Islam a Prometeo, p. 128..
[5] Con Teti.
[6] E’ la pienezza del senno che otterrà chi innalza volentieri epinici a Zeus (Agamennone, vv. 174 - 175), n.d.r.
[7] Dall’Islam a Prometeo, p. 126.
[8] Aoristo di ojpavzw, "dono".
[9] L’altro è Bia (Violenza), kwfo;n provswpon, personaggio muto
[10] Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 70.
[11] Com’è noto, era questo l’aspetto dello spirito dionisiaco che Nietzsche sviluppò in modo particolare nella Nascita della tragedia, anche per influsso delle sue letture di Schopenhauer.
[12] Guidorizzi, Euripide Baccanti, p. 18.
[13]L'anello di Clarisse , p. 6.
[14]Poetica , 1459b.
[15]Nietzsche, Aurora , p. 40.

1 commento:

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