giovedì 21 aprile 2016

Incontri linguistici del lunedì. Parte IV

Cesare Pavese

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Restare bambini, dal punto di vista del pensiero, non è cosa buona.
Lo fa notare C. Pavese: "C'è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini"[1].
Leopardi trova che nella sua età prevalgano queste “creature”, giovani e anziane,  infantilmente insensate[2]: "Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche preparatorie"[3].

Nel Satyricon, il retore Agamennone dice: "Nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est, quod quisque puer perperam didicit, in senectute confiteri non vult" (4, 4), ora i ragazzi nelle scuole giocano, da giovani adulti vengono derisi nel foro, e quello che è peggio dell'una e dell'altra cosa, è il fatto che quanto ciasccuno ha imparato male, nella vecchiaia non vuole ammetterlo.
Si dice che oggi la scuola è decaduta rispetto a quella selettiva del buon tempo antico. In parte è vero. Ma, come sempre, c'è un rovescio della medaglia, c'è una possibilità di sostenere il contrario, secondo una logica aperta al contrasto che divenne metodica  con i  Dissoì lògoi [4]  i “Discorsi in contrasto”, presenti nelle Antilogie perdute di Protagora[5] il quale "fu il primo a sostenere che intorno ad ogni argomento ci sono due asserzioni contrapposte tra loro" come ricorda Diogene Laerzio[6].
La logica dei Greci è aperta al contrasto, come si vede in vari testi (p. e. in Eschilo (Coefore, Eumenidi)[7].

Con alcune ragioni  si può sostenere che la scuola è peggiorata, ma con altre che è diventata migliore.
Il bello della scuola dei miei tempi era che lo studente arrivato alla laurea trovava il lavoro, subito, o quasi subito, ed era un impiego a tempo indeterminato.
Il brutto di quella scuola era che imponeva uno studio mnemonico, generalmente acritico e dogmatico di alcuni aspetti delle materie, talora nemmeno i più rilevanti.
Il greco e il latino, erano studiati prevalentemente su grammatiche e sintassi, in minima sugli autori dei quali si imparavano a memoria le vite e le opere attraverso dei manuali privi anche di brani antologizzati. La storia sembrava fatta solo dalle battaglie dei grandi condottieri. Le lingue europèe si studiavano poco e male. Ora i giovani hanno maggiori opportunità e vie per informarsi.
 L'attuale formazione dell'Europa che porta con sé non pochi sconvolgimenti da una parte, dall'altra può indurci a prendere  coscienza di appartenere a una civiltà nobile e antica, di sentire "il benessere dell'albero per le sue radici, la felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza. E' questo ciò che oggi si designa di preferenza come il vero e proprio senso storico"[8].
Togliere il latino e il greco dalla scuola significa, a parer mio, disanimarla.
Vero è che in troppe scuole, da parte di tanti professori, le lingue classiche sono state insegnate male, e chi lo faceva bene, ossia mostrando l'albero ramificato della cultura europea cresciuto sulle radici e il tronco del greco e del latino, è stato magari molto amato e seguito dai ragazzi, ma spesso poco capito e benvoluto, talora addirittura ostacolato da colleghi e da presidi. Ne scrivo per esperienza.

Facevo del comparativismo quando non era ancora di moda: il preside Magnani del liceo Galvani chiamò in tre anni due ispezioni contro di me. Per fortuna gli ispettori ministeriali, Adelelmo Campana e Antonio Portolano, erano più aggiornati e preparati di lui e sbugiardarono quel burocrate ottuso, messo su da colleghi ottusi.  
Questo corsivo si può togliere se non dà lumi.

Il difetto dell'insegnamento tradizionale, quello impartito a noi che frequentavamo i licei classici nei primi anni Sessanta, era che riduceva il classico a una serie di tecnicismi. Non dico che la morfologia e la sintassi non siano necessarie, ma ho sempre sostenuto che devono essere, i primi gradini,  non i punti d'arrivo. Comunque sempre corredati dal lessico, cioè da molti esempi.
"Pascoli, invitato a stendere una relazione sulle cause dello scarso rendimento degli alunni agli esami di licenza liceale, così si esprimeva:"Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica…Anche nei licei, in qualche liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un'ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de' quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio"[9].
Contro questo studio sbagliato, "morboso" dei classici si era già schierato Seneca: "Graecorum iste morbus fuit quaerere quam numerum Ulixes remigum habuisset, prius scripta esset Ilias an Odyssia …(De brevitate vitae, 13).
E ancora: "Itane est? annales evolvam omnium gentium et quis primus carmina scripserit quaeram? quantum temporis inter Orphea intersit et Homerum, cum fastos non habeam, computabo? et Aristarchi notas quibus aliena carmina conpunxit recognoscam, et aetetem in syllabis conteram? (…) adeo mihi praeceptum illud salutare excidit: “tempori parce”? Haec sciam? Et quid ignorem?” " (Ep., 88, 39) Davvero? dovrò srotolare  gli annali di tutti i popoli e indagare su chi abbia scritto versi per primo? calcolerò quanto tempo ci sia tra Orfeo e Omero mentre non ho i documenti? e dovrò esaminare i segni diacritici di Aristarco con cui egli infilzò i versi interpolati e consumerò la vita a contare le sillabe? (...) davvero mi è sfuggito quel sano precetto: risparmia il tempo? Dovrei sapere queste pedanterie? E che cosa ignorare?
La “pedanteria” dei filologi alessandrini, è stata colpita da Luciano “con le armi del ridicolo” appunto. Nella Storia vera l’autore immagina di avere incontrato Omero che gli  aveva detto di essere un Babilonese, di chiamarsi Tigrane e che i versi atetizzati dai filologi erano tutti suoi “kategivgnwskon ou\n tw`n ajmfi; to;n Zhnovdoton kai; j Arivstarcon grammatikw`n pollh;n th;n yucrologivan” (20), allora io accusai la grande pedanteria dei filologi Zenodoto e Atristarco.
All’Università diedi due esami di greco, leggendo non pochi versi invero (tutta l’Odissea e sette tragedie di Euripide). Imparai un poco di lingua ma nessun insegnante mi diede una visione d’insieme, non dico della civiltà greca, ma nemmeno della letteratura né della storia. Neanche di un singolo autore ebbi la sinossi.     

I testi degli ottimi autori  greci e  latini inducono  a pensare e non possono essere ridotti a raccolte di formule o di ricette:“ ‘Qua leggiamo Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’ ”[10].

Ora sentiamo lo scholasticus Encolpio: “Nondum iuvenes declamationibus continebantur cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt” (Satyricon , 2-3), non ancora i giovani  erano rinchiusi nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Un maestro chiuso nell’ombra non aveva ancora distrutto gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici, si peritarono di cantare in versi omerici.
Sentiamo anche Nietzsche: ““Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”[11].
“Di fronte al genio, cioè ad un essere che crea o che dà alla luce…il dotto, l’uomo medio della scienza, ha sempre qualcosa della vecchia zitella: in quanto, come quest’ultima, non ha la minima idea di queste due funzioni umane, che sono le più preziose…il suo occhio assomiglia allora ad un lago liscio e odioso, la cui onda non si increspa a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma le cose peggiori di cui un dotto è capace, gli provengono dall’istinto della mediocrità, propria della sua razza; da quel gesuitismo della mediocrità che incosciamente lavora alla demolizione dell’uomo eccezionale e tende a spezzare ogni arco teso o, meglio ancora, ad allentarne la tensione.”[12].
Dotti sono considerati i filologi: una razza disprezzata da Nietzsche: “L’antichità è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[13].
“I filologi non sono se non liceali invecchiati”[14]. A volte addirittura dei ginnasiali ammuffiti.

L’insegnante bravo è quello che non solo ha studiato molto ma ha vissuto, gioito e sofferto e amato molto. A lui  molto  sarà perdonato.
Sentiamo i ricordi di Fellini studente: "La scoperta, la conoscenza del mondo pagano che si acquisisce a scuola, ad esempio, è di tipo catastale, nomenclativo, favorisce con quel mondo un rapporto fatto di diffidenza, di noia, di disinteresse, al massimo di una curiosità casermesca, abietta, un po' razzistica, comunque di cosa che non ti riguarda"[15]. In un altro libro il regista riminese racconta di un insegnante impreparato che si riempiva di ridicolo:" Il professore era comicissimo quando pretendeva che dei mascalzoni di sedici anni fossero presi da entusiasmo perché lui declamava con la sua vocina l'unico verso rimasto di un poeta:"Bevo appoggiato sulla lancia"[16]; e io allora mi facevo promotore di ilarità sgangherate inventando tutta una serie di frammenti che andavamo sfacciatamente a riproporgli"[17].
La chiave è  questa: far capire e sentire ai giovani che quel "mondo pagano" li riguarda. Certamente l'attenzione degli studenti ha un prezzo molto alto, quello della nostra preparazione, e il loro consenso non va cercato a tutti i costi. Josef Knecht durante il suo apprendistato nel mondo spirituale della Castalia "imparò che un po' di questa capacità di attirare e d'influenzare gli altri è parte essenziale delle doti di un insegnante e di un educatore, e che nasconde pericoli e impone certe responsabilità"[18].



continua

[1]Il mestiere di vivere  , 24 dicembre 1937.
[2]Al capitolo 58 ricorderemo  l'attardato bambino pargoleggiante dell’età d’argento di Esiodo.
[3] Dialogo di Tristano e di un amico (1832).  E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone , 1394) .  Al capitolo 66 citerò altre parole di Tristano all’amico.

[4] " Un testo che può definirsi la formulazione "relativistica" del pensiero dei sofisti…Gli "agoni di discorsi" tucididei echeggiano questa problematica, pur a mezzo secolo di distanza dai Dissoì lògoi… uno scritto sofistico redatto verso il 450 o al più tardi 440" (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 1 pp. 258 ss.).
[5] Nato nella ionica Abdera intorno al 485 a. C., all'incirca coetaneo di Euripide dunque.
[6] Vite dei filosofi IX, 51
[7] Coefore  461:" [Arh"  [Arei xumbalei', Divka/ Divka, Ares si scontrerà con Ares, Diche con Diche. Nelle Eumenidi la visione patriarcale delle Erinni si scontra con quella patriarcale di Apollo e Atena. 
[8] F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali II,  cap. 3..
[9] A. Giordano Rampioni, op. cit., p. 49.
[10] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
[11] Così parlò Zarathustra, Dell’uomo superiore, 9
[12] Di là dal bene e dal male, Noi dotti.
[13] Frammenti postumi ottobre 1876 (4).
[14] Op. cit (6)
[15] F. Fellini, Fare un film, p. 101.
[16] Si tratta di una parte del pentametro del  fr. 2D. di Archiloco costituito da un distico elegiaco. Non è "l'unico verso rimasto" del poeta  vissuto nel VII secolo a. C..
[17] F. Fellini, intervista sul cinema, p. 136.
[18] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 155.

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