giovedì 7 aprile 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte V

Luca Signorelli, Orazio
(dagli affreschi del Duomo di Orvieto, ca. 1500)

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Leopardi con il fuoco critica anche la navigazione avvalendosi di Orazio: "Orazio (I, Od. 3) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come un ardire tanto contro natura[1], quanto lo è la navigazione, e l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e morbi ec., di quanto la navigazione; e come altrettanto colpevole della corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana.(Zibaldone , p. 3646).
La menzionata Ode (I, 3, in sistema asclepiadeo IV) del poeta di Venosa verte sull'ardimento umano e biasima prima l'invenzione della navigazione, le empie navi che valicano acque intangibili ("tamen impiae / non tangenda rates transiliunt vada", I, 3, 23 - 24), quindi (27 - 33) Prometeo, inventore del fuoco[2]: "audax Iapeti genus / ignem fraude mala gentibus intulit; / post ignem aetheria domo / subductum macies et nova febrium / terris incubuit cohors / semotique prius tarda necessitas / leti corripuit gradum ", l'audace prole di Giàpeto, portò con frode malvagia il fuoco tra i popoli; dopo che il fuoco fu sottratto dalla sede celeste, la consunzione e una nuova schiera di febbri piombò sulla terra, e la Necessità, prima lenta, affrettò il passo della morte lontana.
 La Necessità che è la forza suprema dunque diviene incalzante e urgente.
 Infine Orazio ricorda Dedalo che volò "pennis non homini datis" (v. 35) con penne non concesse all'uomo, ed Ercole che irruppe vivo nell'Acheronte. Dunque:"nil mortalibus ardui est;/caelum ipsum petimus stultitia neque/per nostrum patimur scelus/iracunda Iovem ponere fulmina" (Odi, I, 3, vv. 37 - 40), niente è difficile per i mortali; attacchiamo il cielo stesso nella nostra follia, e con i nostri delitti impediamo a Giove di deporre i fulmini dell'ira.

I soldati di Alessandro prima della battaglia di Arbela (ottobre 331) si lamentavano, molto realisticamente, invero dicendo: “in unius hominis iactationem tot milium sanguinem impendi[3] per la vanagloria di un solo uomo si spendeva il sangue di tante migliaia. Il conquistatore macedone era uno che rinnegava il padre Filippo, e “caelum vanis cogitationibus petere”, mirava al cielo con vane fantasie.

La navigazione è uno degli aspetti della violenza umana nei confronti della natura, un ardimento piena di rischi, come fa notare Sofocle nel primo Stasimo dell'Antigone. Vediamone la prima strofe e la prima antistrofe: "Molte sono le cose inquietanti e nessuna/è più inquietante dell'uomo/ questo prodigio anche al di là del mare/canuto con l'austro tempestoso/procede (cwrei', v. 336), passando sotto/i flutti gonfi che si spalancano intorno, e tra le divinità,/la suprema, la Terra,/che non si consuma, che non si stanca, lui cerca di affaticare/quando vengono girati gli aratri, anno per anno/rivoltandola con la stirpe equina./ E la razza degli uccelli dalla mente/alata, circondando con maglie/di reti intrecciate/cattura, e le stirpi delle fiere selvatiche/e la progenie sprofondata nel mare,/l'uomo che sa pensare, e si impossessa/con i suoi mezzi della bestia/che dimora nei campi, che vaga sui monti, e il cavallo/dalla cervice crinita trascina sotto il giogo che cinge il collo/e il montano, infaticabile toro" (vv. 332 - 352).
Sono tutti i benefici di Prometeo (cfr. Prometeo incatenato vv. 459 sgg.).

Sentiamo il commento di Heidegger: il coro "canta l'irruzione prorompente sull'abisso ondoso e senza fondo, l'abbandono della terra ferma. La partenza non avviene in una calma serenità di acqua scintillante, ma nel bel mezzo di una tempesta invernale cwrei', ossia, egli abbandona il suo luogo, si dis - loca e si espone alla forza soverchiante, senza dimora, del flutto marino. La parola cwrei' si erge, nella strutturazione del verso, come una colonna. Ma, intrisecamente connessa a questa partenza violenta contro la predominanza del mare, si trova l'irruzione incessante nell'indistruttibile dominio della terra. Facciamo bene attenzione: la terra rappresenta qui la suprema divinità. Col far - violenza l'uomo disturba la calma della crescita, il nutricare, il generare di questa infaticabile. Nel caso della terra, il predominante non è colui che domina con la ferocia autodistruttiva, ma colei che senza pena né fatica porta a maturazione ed elargisce con la tranquilla superiorità di una grande ricchezza, l'inesauribile librantesi al di sopra di ogni sforzo. In tale dominio irrompe colui che violenta: anno per anno la dirompe con l'aratro, e coinvolge l'infaticabile nell'agitazione del proprio sforzo"[4].
Il topos dell’antinavigazione procede con Lucrezio il quale dà un'immagine composita dell'età più antica: allora la vita degli uomini era dura assai, ma le guerre non distruggevano in un sol giorno molte miglia di uomini schierati, né c'era la morte per acqua marina:"nec poterat quemquam placidi pellacia ponti/subdola pellicere [5] in fraudem ridentibus undis./Improba navigii ratio tum caeca iacebat "(V, 1004 - 1006), né la seduzione subdola del mare in bonaccia poteva sedurre alcuno con il sorriso delle onde[6]. Allora la detestabile arte del navigare giaceva sconosciuta.
Virgilio nella IV ecloga, dove annuncia il ritorno dell'età dell'oro, mette la navigazione, con la guerra e l'agricoltura, tra le attività perfide e dure a morire dell'età ferrea: anche quando l'uva penderà rossa dai rovi incolti e le querce suderanno mieli rugiadosi "pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudis,/quae temptare Thetin ratibus, quae cingere muris/oppida, quae iubeant telluri infindere sulcos" (vv. 31 - 33), tuttavia sotto resteranno poche tracce dell'antica perfidia, quelle che spingono a tentare il mare con le navi, a cingere di mura le fortezze, a scavare solchi nella terra.

Non meno negativamente considera la traversata marina Properzio il quale anzi impreca contro l'inventore di quel viaggiare sull'acqua che lo ha portato lontano da Cinzia:"A pereat, quicumque ratis et vela paravit/primus et invito gurgite fecit iter " (I, 17, 13 - 14), ah, perisca chiunque per primo costruì le navi e le vele, e si aprì il cammino tra i gorghi riluttanti. E’ il topos dell’imprecazione contro l’inventor di un’attività.
Nel primo libro delle Metamorfosi Ovidio afferma che durante l'età dell'oro non c'erano le navi che solcavano i mari:"nullaque mortales praeter sua litora norant" (v. 96), i mortali non conoscevano altri lidi che i propri.

 Un’eco di questa maledizione si trova in El burlador de Sevilla (1630) di Tirso de Molina, il padre di tutti i Don Giovanni. Il servo di Don Juan, Catalinòn, in seguito a un naufragio, si salva dalla morte per acqua e, portando in braccio il padrone semivivo, dice: “Maledetto chi per primo/ha piantato pini in mare/e con un fragile legno/ha sfidato le sue rotte!...Maledetto sia Giasone/ e maledetto anche Tifi!” (I, 11).

Il secondo coro della Medea di Seneca maledice, in dimetri anapestici, la navigazione come attività troppo audace per l'uomo: “Audax nimium[7], qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto” (vv. 301 - 308), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti e fendendo gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole, guidato sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte
 Il primo a violare il mare è stato, con gli altri argonauti, Giasone la cui audacia, e la successiva perfidia nei confronti di Medea, ha trovato degni antagonisti nei freta perfida.
L'inventore però rimane Prometeo.
"Ciò che colpisce immediatamente il lettore del secondo coro (vv. 301 - 379) è il ritmo temporale che lo scandisce, la diastole e la sistole, mi si passi l'immagine, tra un passato positivo e un presente negativo, di cui la spedizione argonautica rappresenta il diaframma. Il coro si apre con la presentazione (vv. 301 - 308) del primo navigatore che, nimium audax (superfluo ricordare la connotazione negativa di audax intensificata dal nimium) per avere affrontato con la fragilità della nave i perfida freta ( una fragilità che Seneca esprime anche nel gioco fonosimbolico delle allitterazioni e, soprattutto, nella protratta iterazione della "r") si è fatto reo di aver infranto il limes tra la vita e la morte divenuto in tal modo nimium gracilis"[8].
"Alla breve presentazione dell'audacia del primo navigatore segue la descrizione (vv. 309 - 317) del tempus precedente come tempo di pura contemplazione o comunque di non strumentalizzazione del cosmo - starei per dire dello spazio - da parte dell'uomo:“nondum quisquam sidera norat,/stellisque quibus pingitur aether/non erat usus[9]. Nessuno ancora conosceva i nomi degli astri né faceva uso delle stelle di cui è dipinta la volta celeste.

La cultura pragmatica arriva a strumentalizzare tutto.
"L'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica"[10].
Seneca contrappone l'età preargonautica a quella che viene dopo l’ardire di Tifi, il pilota della nave Argo:"Ausus Tiphis pandere vasto/ carbǎsa ponto legesque novas/ scribere ventis" (vv. 318 - 320), Tifi osò distendere le vele sul vasto mare e dettare leggi nuove ai venti. Torna il biasimo dell'audacia poiché questa impresa "che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo"[11] costituisce un aspetto di quello "sviluppo" quale "fatto pragmatico ed economico" senza "progresso" come "nozione ideale" di cui parla Pasolini negli Scritti corsari (p.220), o un ingrassamento senza grandezza, come quello che Platone nel Gorgia attribuisce all'azione dei politici Ateniesi i quali:" in effetti senza preoccuparsi della temperanza e della giustizia (a[neu ga;r swfrosuvnh" kai; dikaiosuvnh") hanno riempito la città di porti, di arsenali, di mura, di contributi e di altre sciocchezze del genere (toiouvtwn fluariw'n ejmpeplhvkasi th;n povlin, 519a).
Si veda un ancora più esplicito svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di Diotima del Simposio platonico:"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in tali rapporti[12] è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Seneca ripete questo concetto quando dissente (non concesserim) da questa affermazione di Posidonio: “ artes quidem a philosophia inventas quibus in cotidiano vita utitur” (Ep. 90, 7), che la filosofia ha inventato gli strumenti che la vita utilizza ogni giorno. Quindi fa alcuni esempi. Vediamone uno: “Quid ais? Philosophia homines docuit habere clavem et seram? Quid aliud erat avaritiae signum dare?” (90, 8), che cosa dici? La Filosofia ha insegnato agli uomini a tenere chiavi e catenacci? Che cos’altro sarebbe stato se non dare il segno dell’avarizia? Insomma: “omnia ista sagacitas hominum, non sapientia invenit” (90, 11) tutto questo lo ha inventato il fiuto degli uomini, non la sapienza.


continua


[1] Tovlma para; fuvsin, “tovlma me;n ga;r ajlovgisto~”si porebbe dire con Tucidide (III, 82, 4)..
[2]Oltre che delle navi: i cocchi dalle ali di lino del Prometeo incatenato di Eschilo (v. 468).
[3] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 4, 10, 3.
[4] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, p. 162.
[5]Si noti l'allitterazione con la p che sembra preludere all'esplosione della successiva tempesta marina.
[6]Traduco “il sorriso delle onde”, come del resto ha già fatto Luca Canali , poiché a parer mio l'espressione di Lucrezio risente di quella eschilèa:" pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma" (Prometeo incatenato , 89 - 90), innumerevole sorriso delle onde marine.
[7] Ancora una tovlma ajlovgisto~.
[8] G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 427.
[9] G. Biondi, ibidem, p. 427. Sono citati i vv. 309 - 311 del secondo coro della Medea.
[10] P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[11] Dante, Paradiso, XXXIII, 96.
[12] Quelli tra gli uomini e gli dèi.

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