sabato 30 aprile 2016

Essere cittadino. Merano, 23 aprile 2016. Parte III

Bruto

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Il falso sciocco
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato: “Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen " (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto. “Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[1].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset " I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.

Eppure il sovrano non dovrebbe essere invidioso poiché ha tutti i beni.

Invece invidia i cittadini migliori, si compiace dei peggiori (caivrei de; toĩsi kakivstoisi tw̃n astw̃n) ed è ottimo ad accogliere le calunnie ( diabola;ς de; a[ristoς ejndevkesqai, Erodoto, III, 80, 4).


Il tiranno nella storia romana e nella tragedia greca

 Cfr. Tiberio e Domiziano in Tacito.

Quanto allo fqovno", Tacito attribuisce più di una volta l'invidia ai suoi Cesari: Tiberio (14-37) temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat , Annales , I, 80).
Tiberio: crudeltà e libidine.
La libidine sfrenata di Tiberio. Già negli anni trascorsi a Rodi (6 a.C-2 d. C.) non aveva meditato altro quam iram et simulationem et secretas libidines (Annales, I, 4). Fece morire Cremuzio Cordo il quale aveva scritto che Bruto e Cassio erano gli ultimi dei Romani. Applicò con rigore la lex maiestatis.
Alla morte di Augusto fece assassinare subito Agrippa Postumo, nipote del primo imperatore. “Primus facinus novi principatus fuit Postumi Agrippae caedes (Annales, I, 6). Quindi ammonì la madre che non venissero rivelati gli arcana domus: “ eam condicionem esse imperandi ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur
Altro imperii arcanum: “posse principem alibi quam Romae fieri ” (Historiae, I, 4). Questo si svelò alla morte di Nerone.
Il suo maestro Teodoro di Gadara (maestro anche dell’Anonimo del Peri; u{you~) lo definiva phlo;n ai{mati pefurmevnon, fango impastato con sangue (Svetonio, Vita di Tiberio, 57).
Giravano epigrammi contro Tiberio:
Aurea mutasti Saturni saecula, Caesar
Incolumi nam te ferrea semper erunt

Fastidit vinum, quia iam sitit iste cruorem
Tam bibit hunc avide, quam bibit ante merum”.

A Capri un pescatore gli offrì una triglia (mulla) e Tiberio gliela fece spiaccicare in faccia. L’uomo gli disse: “meno male che non ti ho offerto un’aragosta (locusta). Allora l’imperatore gli fece straziare la faccia con questa. Riempiva di vino i torturati poi gli faceva legare stretto il pene e li faceva gonfiare nel tormento della cordicella e dell’urina. Diceva: “oderint, dum probent”. Sempre a Capri, da vecchio, addestrava i fanciulli quos pisciculos vocabat. Erano pueri primae teneritudinis Li stuzzicava con la lingua e con i morsi, poi offriva il suo membro come un capezzolo. Alcuni bambini non erano ancora stati svezzati dalla nutrice. (Svenonio, Vita, 43). Leggeva i libri infami di Elefantide


 e Domiziano (81-96) invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia: “Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli " ( Agricola[2], 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
Poi l’ipocrisia di Tiberio il quale si serviva di formule antiche per nascondere scelleratezze recenti : “Proprium id Tiberio fuit scelera nuper reperta priscis verbis obtegere” (4, 19).

La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco "to;n kakopatrivdan"( fr. 348 L P) dal padre ignobile, a Platone che certamente non risparmia biasimi al turanniko;" ajnh;r.
 Costui, nella Repubblica (573c) è definito uomo, per natura, o per le abitudini, "mequstikov".. ejrwtikov", melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere" (p. 144).

La paura del tiranno. Metus tyranni: Genitivo soggettivo e oggettivo

Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea ( Medea, 119-121 deina; turavnnwn lhvmata kaiv pw~-ojlivg j ajrcovmenoi, polla; kratou`nte~- calepw`~ ojrga;~ metabavllousin ), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507 la paura tiene le bocche chiuse a chiave ) , La paura del tiranno è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo" : fa paura e ne ha.
Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell'Oedipus di Seneca: “ Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit ". (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute chi lo dice.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis[3]: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio di Siracusa (405-367) e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infine lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio.
La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.

 Nell'Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte "lh/sthv" t j ejnargh;" th'" ejmh'" turannivdo"" (vvv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato-zio più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura ("a[rcein... xu;n fovboisi", v. 585).
“In realtà il tiranno è circospetto perché teme. La sua paura accompagna il suo potere: a[rcein xu;n fovboisi governare in mezzo alle paure, questa è la condizione del tiranno (Sofocle, Edipo re, v. 585).

Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew'n, (v. 782), la più utile delle dee.
 "La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno"[4].
Il tiranno ha paura che gli tolgano il bene più grande che per lui è il potere
Per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per essa può essere bellissimo anche commettere ingiustizia: “ ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri-kavlliston ajdikei'n, ta[lla d j eujsebei'n crewvn", Fenicie vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides) che fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas ", (De Officiis , III, 82).
La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio: “Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[5], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura.
Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
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L’ argomento del timore del principe viene ripreso da Machiavelli . L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1517) verte sulla religione dei Romani
Introdotta beneficamente da Numa, il secondo dei re.
Quindi il segretario fiorentino nomina nomina Licurgo e Solone tra i legislatori che "ricorrono a Dio".
Infine tira le somme: “Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".

Nel Principe (XVII), Machiavelli menziona la “disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto”
Ebbene: “rispondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua”
E, poco più avanti: “Debbe, non di manco, el principe, farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi e dalle donne loro…ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio”.

Tuttavia Tacito ammette che dopo 100 anni di guerre civili iniziate con i Gracchi “omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit (Hist. I, 1). Comunque: “veritas pluribus modis infracta, primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus dominantis (Hist., I, 1)
E negli Annales (I, 7): “At Romae ruere in servitium consules, patres, eques. Quanto quis inlustrior, tanto magis falsi et festinantes


continua



[1] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[2] Del 98 d. C.
[3] Del 44 a. C.
[4]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico., p. 47.
[5]De Catilinae coniuratione , 7.

1 commento:

  1. A volte è proprio chi possiede di più,chi ha tutti i beni come un sovrano, che diventa ingordo...come si dice,la fame vien mangiando? Giovanna Tocco

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