venerdì 22 aprile 2016

Incontri linguistici del lunedì. Parte V

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La grammatica serve a leggere i testi, la metrica  aiuta a memorizzarli.
Io credo le cosiddette regole grammaticali e sintattiche andrebbero mostrate attraverso i testi più belli degli autori più bravi, siccome la bellezza e la bravura colpiscono la sfera emotiva e questa potenzia la memoria favorendo il ricordo.  Del resto le regole non possono essere date all'ingrosso: "Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione dove si diceva così"[1].

Ricordo che nella primavera del 1959, quando facevo la quarta  ginnasio al Terenzio Mamiani  di Pesaro, venne in classe il preside, tal Michelangelo Marchi, e mi domandò, con aria severa, come si dicesse fato in latino. Voleva sapere, disse, se meritavo il nove che aveva appena letto nella mia pagella.
Risposi "fatus". "Bugiardo! gridò  quel brav'uomo, rosso in volto, quasi in preda all'ira. Poi, calmatosi, disse  che l'avevo deluso, che con la mia colossale ignoranza l'avevo  ferito, e profondamente, dato che con i miei voti avrei dovuto sapere che si dice fatum, fatum, assolutamente fatum. Ci restai molto male, pensando di avere fatto un errore gravissimo, del tutto indegno di me e del mio curriculum.
In effetti se fossi stato più bravo, avrei replicato che nel Satyricon  si trova  fatus[2].
Anche questo corsivo si può togliere se dà fastidio

Il fatto che il greco e il latino siano stati insegnati male per decenni,  da troppi docenti, e digeriti male da molti studenti, non deve portarci alla conclusione che il loro studio vada abolito. Va piuttosto riformato e approfondito.
Il latino e, attraverso la mediazione del latino, il greco, sono   largamente presenti nel  linguaggio e nel pensiero, del diritto, della medicina, delle letterature nell’Europa moderna sia neolatina sia germanica, dalla Gran Bretagna alla Svezia, sia slava dalla Slovenia alla Russia, e pure nella zona ugrofinnica, dall’Ungheria-Pannonia alla Finlandia.
Le lingue classiche hanno contribuito a formare gli idiomi  dell’Europa di oggi. In Grecia il moderno demotico non sarebbe nato senza la continuità col greco colto antico e medievale. Una lingua germanica come l’inglese è al 75% del suo vocabolario latina e neolatina. In Italia il prevalere del fiorentino antico sugli altri dialetti è stato in gran parte determinato dalla sua prossimità al latino.
Come l’inglese, l’italiano è poco chiaro per chi lo usa senza la capacità di orientarsi nel retroterra classico. Si pensi alla presenza in Shakespeare di Seneca e di Plutarco (tradotto in inglese da T. North)
Eliot trova delle analogie tra i personaggi di Seneca e quelli di Shakespeare  precisamente in questo loro arroccarsi  nella proprio individualità: "Nell'Inghilterra elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di Roma imperiale. Ma era un'epoca di dissoluzione e di caos; e in tale epoca, qualsiasi attitudine emotiva che sembri dare all'uomo alcunché di stabile, anche se è soltanto l'attitudine di "io sono solo me stesso", è avidamente assunta. Ho appena bisogno di segnalare...quanto prontamente, in un'epoca come l'elisabettiana, l'attitudine senechiana dell'orgoglio, l'attitudine montaigniana dello scetticismo, e l'attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una specie di fusione nell'individualismo elisabettiano. Questo individualismo, questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche...Antonio dice "Sono ancora Antonio [3]" e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi "[4]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest ?"[5].

La nostra cultura politica e anche la nostra Costituzione vengono chiarite e rese più comprensibili dalla lettura di quelle raccontate dal secondo discorso di Pericle, il lovgo~ ejpitavfio~ , nelle Storie di Tucidide (II, 35-46). Cfr. in particolare l’articolo 3, comma B.
L’articolo 3 è forse il più noto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali
Comma B. E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Sentiamo ora il Pericle di Tucidide.
Noi abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche secondo la stima del valore (kata; de; th;n ajxiwvsin)  né uno viene preferito alle cariche per il partito di provenienza (oujk ajpo; mevrouς) più che per il valore (to; plevon ejς ta; koina; h] ajp j ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan) se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai II,  37, 1). 


Sul tradurre
Cicerone afferma che nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent ” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati.
In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio,  Accio, e molti altri, piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci. 

Io mi trovo d’accordo piuttosto con Leopardi.
Almeno nell’insegnare le lingue si deve tradurre in modo da rendere evidente la corrispondenza tra le parole dell’idioma di partenza e quelle d’arrivo.
Leggiamo qualche riga dello Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in  italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” ( 2134).
La lingua italiana, la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica”, ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” ( 964 e 965).
 “Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[6].
Ma sentiamo direttamente di nuovo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717) 


Come si devono insegnare le lingue
Se devo dire parole mie, credo che le lingue si debbano insegnare attraverso gli autori, partendo da quelli che scrivono con chiarezza e bellezza.
Posso fare degli esempi di testi belli, chiari e funzionali all’apprendimento del greco e del latino: il Nuovo Testamento, o, per stare nei classici, le Troiane di Euripide o l’Edipo re di Sofocle, i carmi del Liber di Catullo o l’Eneide di Virgilio tra i latini. Per quanto riguarda la prosa, indicherei le orazioni di Lisia, o di Isocrate per i Greci; Sallustio, o Seneca, o, perché no[7], Petronio per i latini.
Una grammatica di base è necessaria, per carità, ma non deve essere il punto d’arrivo, bensì solo il primo gradino.   
Il fatto è che talora i tecnicismi sono stati impiegati da insegnanti spiritualmente distorti in maniera mortificante, come " una misura di polizia per rintuzzare le intelligenze "[8].
Riporto un messaggio mandatomi da una mia allieva, un'alunna di trent'anni fa .

"Ciao, ho letto il tuo pezzo sul lavoro ( ...) e la perdita del lavoro (... ) e
di Odisseo che viaggia viaggia ma brama il ritorno a Itaca, approdo
desiderato e sicuro. Dopo tanti discorsi sul lavoro un po' rituali e un
po' troppo ascoltati, un'immagine chiara (....) del desiderio di movimento,
di attività, di pensiero, di sogno (...) ma alla fine di approdo sicuro.
Cati
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni
e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si
leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".

Di nuovo Pascoli: "I più volenterosi si svogliano, si annoiano, s'intorpidiscono…; …e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso"[9].
"Lo studio del greco e del latino si caratterizza soprattutto come uno studio linguistico di impronta grammaticale chiuso in se stesso e funzionale solo in minima parte alla lettura dei testi. In queste condizioni la realtà difficilmente può ripagare gli studenti degli sforzi fatti"[10].

Ho insegnato per due anni nel liceo Rambaldi di Imola (uno al biennio uno al triennio) e per cinque al Minghetti (due nel biennio, tre nel triennio), poi per 28 anni al Galvani di Bologna: dall'82 al 91 nel ginnasio; dal 92 al 2010 nel liceo. Dal 2000 ho avuto il semiesonero dopo avere vinto un concorso.
Per 10 anni ho  insegnato didattica della letteratura greca, a contratto, nella SSIS. A Bologna e a Bressanone. Poi un anno a Urbino nel TFA.
 Traggo queste considerazioni dalla metodologia che ho elaborato in tutto questo tempo, leggendo, imparando e insegnando. Insomma ho utilizzato "una lunga esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique"[11].
Ebbene, già insegnando al ginnasio, avvicinavo i ragazzini ai testi belli fin dalla quinta. Un anno di pura morfologia bastava. E d'altra parte, già trattando questa, davo grande spazio allo studio e all'apprendimento del lessico. Con il senno di adesso aggiungo che bisogna dare da subito grande spazio al lessico: mostrare in un testo non difficile i vocaboli greci imparentati etimologicamente e somiglianti con parole italiane, o latine, o inglesi, o tedesche.
 Nel secondo anno si potevano confrontare le regole della grammatica con testi come l' Edipo re. o le Troiane, l'Eneide o il Vangelo.  Gli allievi portati per le lingue classiche, con questo metodo,  studiavano volentieri, quelli refrattari lavoravano meno malvolentieri che se mi fossi fermato ai tecnicismi delle due lingue.

Anche il nostro aspetto influisce sull’attenzione dei ragazzi.
Il maestro caratterizzato dalla ajmorfiva desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori della scuola di Socrate anche per come male si presentano:"aijboi', ponhroiv  g' oi\\da. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei furfanti,  ho capito. Tu dici quei ciarlatani,  quelle facce pallide, gli scalzi.  


continua



[1] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[2] Dopo avere mostrato qualche  trovata stupefacente,  Trimalchione affranca i servi e nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama l'anfitrione rimasticando dottrine stoiche:"et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto " (71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte, anche se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento. Si noti che fatus   invece di fatum. Non è l'unico caso del genere: troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus (12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus (47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora
[3] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606-1607) , III, 13.
[4]Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster  (1580-1625).
[5]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot Opere , p. 800..
[6] P. Citati, Leopardi, p.58.
[7] Negli anni Ottanta il mio utilizzo a scuola del Satyricon era considerata empia o almeno eversiva da certi colleghi, poi un brano di questo capolavoro venne dato da tradurre a un esame di maturità, e gli incauti detrattori dovettero tacere, pur mugugnando
[8] Sono parole dello studente Kolia in I fratelli Karamazov (p. 661) . Questo romanzo è l'ultimo di Dostoevskij (1821-1881).
[9] G. Pascoli, Prose, vol. I, Milano 1956 (2 ed.), p. 592. Da un rapporto al Ministro della Pubblica Istruzione del 1893.
[10] R. Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di letteratura greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION” Phil. 2004,., p. 254.
[11] N. Machiavelli, Il Principe (del 1513), Dedica al Magnifico Lorenzo De' Medici.

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