mercoledì 6 aprile 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte IV

Dario I

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La pazzia di Dario e altre pazzie.
Leggiamo a questo proposito alcuni versi dei Persiani di Eschilo con i quali lo spettro[1] di Dario biasima l'audacia eccessiva del figlio, il grande re Serse "il quale presunse di trattenere come schiavo con/ vincoli il sacro Ellesponto che scorre, il Bosforo, corrente di un dio,/e mutava forma al passaggio, e avvintolo con ceppi/martellati, procurò una grande via al grande esercito./Essendo mortale (qnhto;~ w[n), presumeva, senza saggezza, di averla vinta/su Poseidone e tutti gli dèi (qew`n te pavntwnkai; Poseidw`no~ krathvsein): in questo caso, come poteva/non prendere mio figlio una malattia della mente (novso" frenw'n) ? "(vv. 745 - 750).
 Malattia della mente anche nell’Aiace di Sofocle è presumere di vincere senza l’aiuto degli dèi, o addirittura contro gli dèi: il protagonista della tragedia nel primo stasimo è definito dal coro dei marinai di Salamina “oJ nosw`n” (v. 635). Il Telamonio nel partire da Salamina si era vantato presuntuosamente e stoltamente di potersi procurare la gloria “divca - keivnwn” (Aiace, 768 - 769), senza quelli, cioè senza gli dèi.

La pazzia è di casa nella tragedia: “I tragici furono profondamente attirati dalla dimensione della follia: nei drammi del V secolo le sofferenze di eroi deliranti costituivano un tema ricorrente: E’ il caso di Oreste nelle Coefore[2], di Cassandra nell’Agamennone, di Io nel Prometeo, di Eracle nelle Trachinie e nell’Eracle furente, di Aiace nell’omonima tragedia di Sofocle”[3] e di Penteo, di Agave e delle donne di Tebe nelle Baccanti.

 Il discorso sulla necessità dell’aiuto degli dèi i quali invece si oppongono alla confusione della mescolanza, viene fatto, nelle Storie di Erodoto, da Temistocle il quale, dopo la vittoria sui Persiani, afferma:"Poiché questa impresa non l'abbiamo compiuta noi, ma gli dèi e gli eroi i quali non permisero che un uomo solo, per giunta empio e temerario, regnasse sull'Asia e sull'Europa, uno che teneva in egual conto le cose sacre e profane, incendiando e abbattendo i simulacri degli dèi, uno che frustò e mise in catene anche il mare (“o}~ kai; th;n qavlassan ajpemastivgwse pevda~ te kath`ke”(VIII, 109, 3).
 "Nel voler superare la distanza degli opposti consiste la u{bri" di Serse, quando pretende di aggiogare le due cavalle[4] o le due rive dell'Ellesponto e cioè terra e mare".[5]

Anche Francis Bacon nella Sapienza degli antichi [6] pur attribuendo a Prometeo un altro misfatto, quello di avere attentato alla castità di Minerva, interpreta il delitto del Titano come un tentativo di confondere l'umano con il divino:"Il suo crimine sembra non essere altro che quello in cui non di rado ricadono gli uomini quando si gonfiano per la vastità delle loro conoscenze e della loro padronanza delle arti: quello cioè di cercare di ricondurre la stessa sapienza divina sotto il dominio dei sensi e della ragione; a questo tentativo seguono in modo inevitabile la lacerazione della mente e un tormento continuo, che non dà pace. Gli uomini devono quindi distinguere, con sobrietà e modestia, le cose divine da quelle umane, gli oracoli dai sensi della fede; a meno che non vogliano ritrovarsi ad avere da un lato una religione eretica e dall'altro una filosofia basata sulle favole".
 La confusione è pure il peccato di Edipo che mescola le generazioni.

Vediamo altri doni di Prometeo agli uomini:"kai; mh;n ajriqmo;n , e[xocon sofismavtwn, - ejxhu'ron aujtoi'" , grammavtwn te sunqevsei", - mnhvmhn aJpavntwn, mousomhvtor j ejrgavthn. - ka[zeuxa prw'to" ejn zugoi'si knwvdalauJf a[rma t j h[gagon filhnivou" - i{ppou" , a[galma th'" - uJperplouvtou clidh'". - qalassovplagkta d j ou[ti" a[llo" ajntj ejmou' - linovpter j hu|re nautivlwn ojchvmata" (vv. 459 - 462 e 465 - 468), ed io inventai per loro il numero, eccellente fra le trovate ingegnose, e le combinazioni delle lettere, memoria di tutto, madre delle muse operosa. E ho aggiogato per primo gli animali selvatici… e ho portato sotto il cocchio i cavalli divenuti amanti delle briglie, immagine del lusso straricco. Nessun altro all'infuori di me ha inventato i veicoli dalle ali di lino vaganti per i mari dei marinai.
L'invenzione della navigazione da parte di Prometeo prefigura anche il volo.
Inoltre Prometeo ha trovato i farmaci (vv. 480 sgg.), le tecniche dell'arte divinatoria, l'interpretazione dei sogni, del volo degli uccelli, delle viscere nella vittime sacrificali. Infine ha scoperto i metalli:"calkovn, sivdhron, a[rguron crusovn te, tiv" - fhvseien a]n pavroiqen ejxeurei'n ejmou' ;" (vv. 502 - 503), il bronzo, il ferro, l'argento e l'oro, chi potrebbe dire di averli scoperti prima di me?
La scoperta delle tecniche viene maledetta più volte: nella Tebaide di Stazio, quando Eteocle e Polinice stanno per ammazzarsi a vicenda, la Pietas lamenta di essere stata creata invano dalla Natura princeps con il compito di opporsi agli stati d’animo crudeli di uomini e dèi; quindi esecra la follia dei mortali e le orribili tecniche di Prometeo: “o furor, o homines diraeque Prometheos artes!” (XI, 468).

 Prometeo dunque è un sofisthv" , uno scopritore di sofivsmata (v. 459) ma Kratos, mentre sprona Efesto a inchiodarlo, gli ricorda che il Titano dal suo tormento deve imparare di essere un sapiente ottuso al cospetto di Zeus:" i{na - mavqh/ sofisth;" w]n Dio;" nwqevstero" " (vv. 61 - 62).
Insomma la sofivvva di Prometeo è debole come quella di Edipo il cui peccato vero è la presunzione intellettuale che il re di Tebe manifesta con queste parole: "arrivato io,/ Edipo, che non sapevo niente, la feci cessare,/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/ kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli" (vv. 396 - 398). La sapienza fasulla di Edipo viene smontata dagli eventi nel corso del dramma.
“Gradualmente i personaggi prendono a parlare con una tale esibizione di sagacia, di lucidità, di acutezza che a leggere una tragedia di Sofocle c’è veramente di che restare confusi. Per noi è come se tutte quelle figure andassero in rovina non in base al tragico, ma per una sorta di superfetazione dell’elemento logico”[7].
Nietzsche sarebbe, secondo H. Hesse, il tipico intellettuale tedesco.
 "L'intellettuale tedesco è sempre stato un frondista contro la parola e contro la ragione e ha fatto l'occhiolino alla musica"[8].

“La punta della sapienza si rivolge contro il sapiente, la sapienza è un delitto contro la natura”[9].
La sapienza fasulla di Edipo viene smontata dagli eventi nel corso del dramma.

Questa presunzione di Edipo viene anticipata da Ettore quando dice:"uno solo è l'auspicio ottimo: combattere difendendo la patria" ( ei|~ oijwno;~ a[risto~ ajmuvnesqai peri; pavtrh~, Iliade , XII, 243).
Con queste parole Ettore risponde, guardandolo bieco (uJpovdra ijdwvn, v. 230), a Polidamante il consigliere che gli ha indicato un segno: un’aquila che aveva afferrato un serpente, ma poi, morsa da quella preda, l’aveva lasciato cadere strillando. Ebbene, Ettore risponde: tu mi consigli di dare retta agli uccelli dalle ali spiegate, ma di loro io non mi curo in alcun modo, né mi do pensiero (tw'n ou[ ti metaprevpom j oujd j ajlegivzw, 238).

Il sospetto nei riguardi dell’intelligenza umana si trova anche in Dante che, come giunge nell’ottava bolgia dell’VIII cerchio, quella dei consiglieri fraudolenti, esclama:
 “Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi”[10]

Una conseguenza catastrofica delle tevcnai nate dalla scoperta di questo agente terribile viene prevista nell'ultima pagina del maggior romanzo di Svevo:"Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni torneremo in salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un pò più ammalato[11], ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie"[12].

Il male della navigazione e della cultura pragmatica in genere.
La considerazione del mare amaro si trova già in Omero: nell'Odissea un figlio di Alcinoo, Laodamante, nota che le fatiche marine hanno messo a dura prova la tempra di Ulisse:" ouj ga;r ejgwv gev tiv fhmi kakwvteron a[llo qalavssh" - a[ndra ge sugceu'ai, eij kai; mavla kartero;" ei[h", (VIII, vv. 138 - 139), io infatti dico che non c'è altro peggiore del mare per demolire un uomo, anche se è molto forte.
 Eppure Odisseo è il re navigatore, il re di tempeste[13].
Livio Andronico (III sec. a. C.) traduce i due esametri omerici nella sua Odusia con tre saturni:"Namque nullum peius macerat humanum/quamde mare saevum: vires cui sunt magnae/ (…) topper confringent importunae undae" (fr. 20 Morel), infatti nulla di peggio tormenta l'uomo che il mare crudele: anche quello di grandi forze presto spezzeranno le onde contrarie.
Esiodo nelle Opere consiglia di limitare la navigazione a due periodi brevi (in agosto e in aprile) poiché :"deino;n[14] d j ejsti; qanei'n meta; kuvmasin" (v. 687), è terribile morire in mezzo alle onde.
Il mare è indicato anche da Eraclito come immensa quantità di acqua ostile all'uomo:"qavlassa uJvdwr kaqarwvtaton kai; miarwvtaton, ijcquvsi me;n povtimon kai; swthvrion, ajnqrwvpoi" de; a[poton kai; ojlevqrion" (fr. 34 Diano), il mare è l'acqua più pura e la più contaminata, per i pesci è potabile e li tiene in vita, per gli uomini è imbevibile e letale.


continua


[1] Nelle Eumenidi compare lo spettro di Clitennestra, nell’Ecuba di Euripide lo spettro di Polidoro recita il prologo.
[2] E nell’Oreste ndr.
[3] Guidorizzi, Euripide Baccanti, p. 35.
[4] Veramente sono due donne: una in vesti doriche, l'altra persiane (n.d. r.).
[5] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 27.
[6] Del 1609.
[7] Nietzsche, Socrate e la tragedia, p. 61
[8] H. Hesse, Il lupo della steppa, p. 181.
[9] La nascita della tragedia, p. 66.
[10] Inferno, XXVI, 19 - 24.
[11] Cfr. nosw`n (Aiace, 635).
[12] La coscienza di Zeno.
[13] Così lo chiama D’Annunzio: “odimi, o Re di tempeste!” in Laus vitae del 1903. Così invece lo ridicolizza Gozzano: “Il Re di Tempeste era un tale / che diede col vivere scempio / un ben deplorevole esempio / d’infedeltà maritale, / che visse a bordo d’un yacht / toccando tra liete brigate / le spiagge più frequentate / dalle famose cocottes” (L’ipotesi, del 1908, vv. 111 - 118).
[14] Altro deinovn.

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