sabato 9 aprile 2016

"Il Prometeo incatenato". Parte VII

Mary Godwin Shelley

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Platone considera l’oro promotore di mali.
Vediamo cosa dice l'Ateniese nelle Leggi: "Poveri per questo motivo non erano, né, costretti dalla povertà, divenivano discordi tra loro; e nemmeno ricchi divennero mai in quanto privi di oro e di argento… nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti violenza, né ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità” (679b - c).

La scrittura. Il Fedro platonico. Quintiliano. Cesare. Il divieto di scordare nell’Odissea.
Una confutazione efficace dei benefici operati dalla scrittura nei confronti della memoria si trova nel mito di Theuth del Fedro di Platone. Il dio Theuth è il Prometeo degli Egiziani: egli si reca dal re Thamus, che dovrebbe corrispondere ad Ammone, quindi a Zeus, e gli presenta le sue invenzioni elogiandole: i numeri, il calcolo, l'astronomia, la geometria, il tavoliere, i dadi, e le lettere; di queste in particolare dice:"renderanno gli Egiziani più saggi e più capaci di ricordare: è stato trovato un farmaco della memoria e della sapienza"(274e); ma il "re di tutto quanto l'Egitto", rispose:" tu, essendo il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quanto essa può. Questa infatti produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l'hanno imparata, per incuria della memoria, poiché per fiducia nella scrittura, ricordano dall'esterno, da segni estranei, non dall'interno, essi da se stessi: dunque non hai trovato un farmaco della memoria ma del ricordo"( ou[koun mnhvmh~, alla; uJpomnhvsew~, favrmakon hu|re~, 275a).
 Così viene confutata la scrittura da Platone. Lo ricorda Quintiliano: “invenio apud Platonem obstare memoriae usum litterarum, videlicet quoniam illa, quae scriptis reposuimus, velut custodire desinimus et ipsa securitate dimittimus” (Institutio oratoria, XI, 2, 9), leggo in Platone che ostacola la memoria l’uso dei caratteri scritti, evidentemente perché quello che abbiamo messo da parte negli scritti smettiamo di custodirlo, per così dire, e per questa stessa tranquillità lo lasciamo perdere.
 Cesare raccontando dei drùidi, i quali tra i Galli attendono al culto, mette in rilievo che essi sono tenuti in conto e onorati tanto che molti cercano di entrare nella loro scuola o ci vengono mandati dai genitori. La disciplina cui sono sottoposti per arrivare a quei privilegi però è durissima e impone un grande sviluppo della memoria attraverso il disuso della parola scritta: “Magnum ibi numerum versuum ediscere dicuntur” (De bello gallico, VI, 14), si dice che imparino a memoria un gran numero di versi. “Itaque annos nonnulli XX in disciplina permanent”, così alcuni rimango a scuola per venti anni. “Neque fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus, Graecis utantur litteris”, non considerano attività permessa affidare quelle dottrine alla scrittura, mentre in quasi tutte le altre pratiche, quelle amministrative, conti pubblici e privati, fanno uso dell'alfabeto greco. Quindi Cesare ne spiega le ragioni che sono più o meno quelle di Thamus:"id mihi duabus de causis instituisse videatur, quod neque in vulgum disciplinam efferri velint, neque eos qui discunt, litteris confisos minus memoriae studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio litterarum diligentiam in perdiscendo ac memoriam remittant" (VI, 14), credo che abbiano disposto questo per due ragioni: non vogliono che la loro scienza venga divulgata né che i discepoli fidandosi della scrittura diano meno importanza alla memoria; poiché di solito ai più succede che con l'aiuto della scrittura abbandonano l'impegno di imparare bene e perdono la memoria.

Sul rischio di scordare il ritorno, e l’Odissea, ha scritto parole interessanti Calvino:"Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante...Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il ritorno". Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di battaglia del loro repertorio"[1].
Giunti tra i lotofagi, quanti mangiavano il dolcissimo frutto del loto voleva rimanere là a mangiarlo novstou te laqevsqai (Odissea, 9, 97) e scordare il ritorno.

Anche l'aggiogamento degli animali non è visto come un atto produttivo di bene dal tradizionalismo antico.
Esso fa parte di quella sofiva tecnologica che costituisce una violenza sulla natura e non accresce né la felicità né la stessa vita dell'uomo. La necessità, lo abbiamo già detto, è più forte della tecnica (v. 514) che non comprende il destino.
Questo predominio del fato non risparmia nessuno, e il martire aggiunge, consolandosene, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(v. 518).
Destino e Necessità sono le divinità supreme.
Nel trattato Della tirannide (del 1777) Alfieri distingue la religione cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della prima con la libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere, e fu infatti, assai favorevole al vivere libero…La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).

U. Galimberti ricorda alcuni versi del Prometeo incatenato a proposito della catastrofe che ha colpito l'Asia il 26 dicembre 2004: "Rassicurato dalla sua mente e dai prodotti della sua mente interrogò[2] Prometeo, che aveva donato la tecnica agli uomini, ponendogli questa domanda:" E' più forte la tecnica o la necessità che governa le leggi della natura?". Prometeo, amico degli uomini e inventore delle tecniche, dà la sua risposta lapidaria:"La tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi della natura". Così riferisce Eschilo nel Prometeo incatenato[3], e Sofocle, di rincalzo, nell'Antigone dice che l'aratro ferisce la terra, ma questa si ricompone dopo il suo passaggio. Allo stesso modo la nave fende la calma trasognata del mare, ma le acque si ricompongono perché la natura è sovrana. Noi abbiamo dimenticato la sovranità della natura…Fedeli esecutori del comando biblico che invitava Adamo al dominio della terra, abbiamo trasformato il suo uso in usura…La terra per noi è diventata materia prima e niente di più, il suolo coltre da perforare per estrarre energia dal sottosuolo, la foresta legname da utilizzare, la montagna cava di pietra, il fiume energia da imbrigliare, il mare riserva da esplorare per futuri sfruttamenti, l'aria spazio dove scaricare i veleni rarefatti delle nostre opere…Non dimentichiamoci la potenza della natura e non abituiamoci a pensare che essa non è altro che materia prima, o deposito di rifiuti"[4].
Alessandro Magno voleva forzare la natura. Quando ebbe attraversato l’Oxo, arrivò a Margiana. Rimaneva da conquistare una rupe di 5000 metri, scoscesa. Sembrava imprendibile: “cupido deinde incessit animo naturam quoque fatigandi” (Historiae Alexandri Magni , 7, 11, 4).

L’età dell'oro di Tibullo non aveva le invenzioni di Prometeo.
Sotto il regno di Saturno, al tempo dell'armonia tra l'uomo e la natura, non c'erano le navi, non c'era il commercio, né l'aggiogamento del toro, né l'imbrigliamento del cavallo, né la proprietà privata, né il profitto: allora la terra con i suoi figli, piante e animali, erano generosi nei confronti degli uomini e questi vivevano senza preoccupazioni :"nondum caeruleas pinus contempserat undas,/effusum ventis praebueratque sinum;//nec vagus ignotis repetens compendia terris/presserat externa navita merce ratem.// illo non validus subiit iuga tempore taurus,/non domito frenos ore momordit equus; // non domus ulla fores habuit, non fixus in agris/qui regeret certis finibus arva lapis// Ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant/obvia securis ubera lactis oves" (I, 3, 37 - 46), ancora il pino non aveva sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti il seno aperto[5]: né il marinaio errante cercando profitti in terre ignote aveva caricato la barca di merci straniere. In quel tempo il toro robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non morse il freno con bocca domata; le dimore non avevano porte, non c'era pietra conficcata nei campi che segnasse la terra da arare con limiti certi. Le querce offrivano il miele da sé, e le pecore spontaneamente portavano le poppe gonfie di latte in mano a quegli uomini senza preoccupazioni.
La sfiducia nella scienza e nella tecnica dunque serpeggia nella cultura occidentale, nelle epoche prerazionalistiche oppure in quelle di stanchezza del razionalismo. Così nell'Ottocento ( nel 1818 precisamente, in epoca romantica dunque) abbiamo il Frankestein di Mary Shelley dal significativo secondo titolo ovvero il Prometeo moderno , con il quale l'autrice accusa i disastri provocati dalla scienza, anticipando una denuncia che si ripeterà durante il decadentismo . Lo studioso ginevrino si illude al pari di Prometeo:"Una nuova specie mi avrebbe benedetto come sua origine e creatore"(p.56), ma deve additare la sua opera ardita come modello negativo:"Imparate da me - se non dai miei consigli, dal mio esempio - quanto pericoloso sia l'acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città, di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta"(p.55).


continua




[1]I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.
[2] Il soggetto è l'uomo che costruisce argini, difese e inventa la tecnica previsionale per allontanare il più possibile l'inquietudine dell'imprevedibile.
[3] Cfr. v. 514 (n. d. r.)
[4] U. Galimberti, La natura inumana, in "la Repubblica" 27 dicembre 2004, p. 23.
[5]Quello delle vele, quasi fossero donne sfacciate.

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