giovedì 20 dicembre 2018

Debrecen. Capitolo 8

Countubernales
(Miniature Phersu, di Leonardo Torricini)
L’alloggio nel collegio. L’incontro con i tre contubernali amici

Proseguii a piedi. Fatti duecento metri vidi e riconobbi, a mia volta riconosciuto sebbene fossi male in arnese, alcuni studenti della facoltà di Lettere di Bologna che, arrivati la sera prima, si erano già sistemati e mi accompagnarono fino al collegio poco distante dandomi buone notizie sull’ambiente, immagino per incoraggiarmi. Si vedeva che ne avevo bisogno. Avevo compiuto il tratto finale del viaggio aiutato da quei Samaritani mossi a compassione viscerale1 dal mio aspetto e assistito dal destino, poiché dietro a tutto c’è il Fato, "cum fatum nihil aliud sit quam series implexa causarum" 2, dal momento che il fato non è altro che la serie concatenata delle cause.
Sicché tornai a recuperare l’automobile, e finalmente potei presentarmi alla segreteria, quindi alla ricezione dove mi assegnarono un posto in una camera a quattro letti. Il viaggio di 1200 chilometri iniziato a Pesaro due giorni prima, e svoltosi tra alcune speranze e mille terrori, infine era giunto alla meta. Non sarebbe stato altrettanto faticoso, mentalmente, quando lo avrei ripetuto in bicicletta nel 2011, quarantacinque anni più tardi nonostante una caduta precipitosa in un fosso profondo, con la bici sotto di me e sopra di me lo zaino, oltre il buon Dio. Grazie a Lui, chiunque Egli sia, il fosso era erboso, e l’avello suburbano di gianni ghiselli non sarà a Nagykanizsa la cittadina situata tra il confine della terra magiara e il lago Balaton. Sollevai il fianco già antico e raggiunsi di nuovo la meta con Fulvio, il vecchio amico, anzi l’amico antico e i due amici giovani, gli ex allievi Maddalena e Alessandro conforti della nostra antichità .
Superati gli anni della sciagura, anche grazie agli incontri fatti nell’Università estiva di Debrecen, le cose mi andarono bene, sempre meglio. Quasi invulnerabile come Achille ero diventato.
Dopo il liceo mi aveva oscurato la visione del mondo la mancanza e la necessità della gioia amorosa. Chi ne è privo o privato è pure impedito di raggiungere qualsiasi meta che non sia quel bene agognato con le forze più vive dell’anima. Le poesie di Leopardi sono belle per chi le legge, ma per l’autore furono consolazioni piccole e momentanèe, credo, tali che sicuramente non compensavano il premio grande, davvero olimpico, cui aspirò per tutta la vita per il suo genio: negli auspici frequenti dovette sostituirlo con la morte, “bellissima fanciulla-dolce a veder” ma non tanto bella e dolce quanto le fanciulle e le donne osservate, ammirate, pensate a Recanati e altrove, sempre senza uno straccio di contraccambio.
Chi non assaggia quel sapore che ci assimila agli dèi, “perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina”3, non sente il gusto della vita.

Ma torniamo a quel mattino antico. Ti ricordo, lettore novello, che era il luglio dell’anno di mia salvazione 1966. Quando ebbi ricevuto il posto del necessario ricovero per il mese seguente, cercai ansiosamente di inserirmi tra gli altri giovani del corso estivo. A cominciare dagli italiani maschi con i quali per lo meno riuscivo a parlare senza incepparmi. Del resto non feci nulla per nascondere la mia debolezza, non ne ero capace, né lo volevo, e mi resi compassionevole manifestando le paure che mi assillavano da quando, finito il liceo tre anni prima, avevo smarrito la mia identità di ragazzo molto bravo a scuola, ottimo pure nelle corse a piedi e in bicicletta, e non ne avevo trovata un’altra. Non potevo: un’ identità altra era quella di altri o degli altri, non la mia. Un’identità gregaria che mi metteva a disagio e mi dava dolore più di una maschera o una scarpa stretta. Dovevo ritrovare quella originaria, adatta alla mia natura, a me congeniale: essere bravo in quanto facevo, ossia fare quello per cui ero dotato, lo studio e lo sport, a livello più maturo, più alto e proficuo.
Fino a piacere alle donne. Per fare questo sarebbe stato necessario incontrare persone, soprattutto femmine umane che apprezzassero le qualità mie e mi motivassero a potenziarle. E’ bene sviluppare il proprio genio. Chi lo tradisce va inevitabilmente in rovina. Quelle che mi hanno capito e amato di più, le più intelligenti e buone, mi hanno detto “tu sei un genio”, provocandomi a dimostrarlo con tutti i mezzi, con tutte le forze a disposizione.
Entrato nella camera 4 del III piano del collegio numero uno dunque, scoprìi subito le mie carte bassissime che non volevo coprire con la mia mano tremante; del resto non sarebbe stato facile tenerle nascoste dietro l’aspetto devastato dall’infelicità e con il mio comportamento drammaticamente insicuro. La grande, totale infelicità traspariva da tutti i miei atti “d’allegrezza spenti”4.
Ma Dio che mi aveva guidato fin lì, mi aiutò: i miei contubernales 5 erano persone buone: mi diedero la mano di cui avevo bisogno per cominciare la risalita dall’abisso scosceso e dirupato della sventura. Tra questi c’era Fulvio di Parma che sarebbe diventato il mio amico migliore, poi Danilo, un ragazzo veneto, studioso eppure ebbro di incontenibile gioia, almeno così mi sembrò, e Luigino un dolce ragazzo di Roma, molto sensibile, intelligente, colto e capace di comprendere le difficoltà del prossimo suo, come le proprie. Fulvio mi piacque subito molto. Mi sembrò che osservasse le cose e le persone per meditarci sopra, invece di spiarle per impossessarsene, usarle o sottometterle, come fa la gente volgare.
Aveva due anni e mezzo più di noi altri e un’aria assai più matura. Lo scelsi come l’educatore, il padre, il maestro e l’ amico di cui avevo un grande, insoddisfatto bisogno. Le sue parole non erano mai prive di idèe e sentimenti: Fulvio non era vago di ciance e ostile al pensiero, come tanti omuncoli e diverse donnicciole incontrati sia a Pesaro sia a Bologna. Anche Luigino e Danilo mi piacquero. Erano tutti e tre degli studiosi capaci di apprezzare letture e cultura. Da loro capìi di averle colpevolmente trascurate per paura della mia diversità dalla gente usuale “ una gente-zotica, vil; cui nomi strani, e spesso-argomento di riso e di trastullo,- son dottrina e saper”6.

Quei ragazzi, se citavo un verso di Virgilio o di Euripide o di Leopardi, non mi deridevano, anzi mi approvavano e incoraggiavano a continuare o a ripetere. Capii che questa mia sensibilità alle parole e la mia memoria erano qualità, non difetti come sostenevano i più nel natìo borgo selvaggio dal quale ero partito così desolato.
Fui subito bendisposto verso queste persone tanto differenti da quelle che avevo preso la cattiva abitudine di frequentare: queste non mi avrebbero umiliato né deriso, né ferito, siccome non erano di uno stampo del tutto differente dal mio. Fulvio era di destra, gli altri due di sinistra e avremmo fatto anche discussioni accese, ma eravamo tutti e quattro tendenzialmente, anzi sostanzialmente diversi dal borghesuccio che pensa a fare denaro e a combinare affari. A loro tre, come a me, interessavano l’amore, la bellezza, le idèe, più delle cose materiali: vestiti, automobili, mobili padelle, o altre minuzie7. Avevamo bisogni spirituali innanzitutto e nessuno di noi è diventato un filisteo un “a[mouso" ajnhvr", un uomo estraneo alle muse”8, uno di quegli individui “continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale (…) Di conseguenza le ostriche e lo champagne9 sono il punto culminante della sua esistenza”10.
Spero che questi tre amici, Fulvio, Luigi e Danilo, ancora al mondo grazie al buon Dio, dove prego che ci conservi tutti e quattro ancora a lungo, non me ne vorranno se ricordando i nostri vizi e le nostre virtù non ho cambiato i loro nomi a me cari come le loro persone. Un abbraccio forte a tutti e tre. Vi chiedo di nuovo scusa se più avanti dopo queste parole di affetto non vi risparmierò canzonature e motteggi. Del resto non li ho mai risparmiati nemmeno a me stesso.

Bologna 20 dicembre 2018. Giovanni Ghiselli, detto gianni il poverello di Pesaro.

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1 Cfr. N. T. Luca, 10, 33 “Samarivth" de; ti" ojdeuvwn h\lqen kat j aujto;n kai; ijdw;n ejsplagcnivsqh”.
2 Seneca, De beneficiis, IV, 7
3 G. Leopardi, Operette morali, Storia del genere umano.
4 Cfr. F. Petrarca, XXXV, sonetto XXVIII.
5 Compagni di camerata . Cfr. Seneca Ep. 47, quella su gli schiavi.
6 G. Leopardi, Le ricordanze, 30-33
7 Plutarco, nella Vita di Solone, racconta che il saggio legislatore ateniese disprezzava la ajpeirokaliva, l'ignoranza del bello e la mikroprevpeia (27, 20), la meschinità di Creso che si era presentato coperto di gioielli e d'oro. Luciano in Come si deve scrivere la storia (scritto tra il 163 e il 165) fa questa osservazione: “Vi sono alcuni che trascurano completamente, o appena sfiorano, fatti grandi (ta; megavla) e invece, per rozzezza (uJpo; de; ijdiwteiva"), mancanza di gusto (ajpeirokaliva"), e ignoranza (kai; ajgnoiva") di quello che va detto o quello che va taciuto, si attardano a descrivere nei minimi dettagli le cose più trascurabili (ta; mikrovtata, 27)”. L’ajpeirokaliva è lo stesso difetto che il filosofo Nigrino di Luciano attribuisce ai ricchi Romani, i quali si rendono ridicoli sfoggiando ricchezze e rivelando il loro cattivo gusto: pw'" ga;r ouj geloi'oi me;n oiJ ploutou'nte" aujtoi; ta;" porfurivda" profaivnonte" kai; tou;" daktuvlou" proteivnonte" kai; pollh;n kathgorou'nte" ajpeirokalivan; “Come fanno a non essere ridicoli i ricchi con le loro stesse persone dal momento che mentre mettono in mostra le vesti di porpora e protendono le dita delle mani, denunciano il loro cattivo gusto?” (Nigrino, 21).
8 A. Schopenhauer Parerga e Paralipomena , Tomo I, p. 462.
9 Peggio ancora quel vero e proprio “anticibo” che qui a Bologna amano e chiamano “lasagne”. Nelle Marche “vincisgrassi” che sono meno mangiati e pure meno schifosi e nocivi Quando me lo portano a casa, dico che non ho fame e rimasto solo, lo butto nella spazzatura. N.d.R.
10 Schopehauer Op. cit., p. 463

1 commento:

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