martedì 25 dicembre 2018

Debrecen. Capitolo 10

L’Università estiva di Debrecen. L’esterno

Avevo bisogno di tempo per rifarmi, dicevo. Infatti il 16 luglio del 1966 nessuna delle aulenti creature fiorite sul prato, nemmeno una, mi degnò di uno sguardo. Non erano poi tutte così soavi, fresche e aulentissime come mi era parso a un primo sguardo. Una zitella già un poco attempata inarcò le sopracciglia come due corna, estrasse dal rostro una fila di denti aguzzi, mi indicò a un’altra con sdegno da attrice tragica e le versò nelle orecchie mordaci parole.  Sicché non osai avvicinarmi. Temevo che quella Erinni, o Arpia o Megera che fosse, avrebbe risposto a qualsiasi approccio mio digrignando quei denti feroci e lanciando contro di me pugni e piedi pesanti come massi scagliate da catapulte possenti.
Mi mossi in direzione della linea tranviaria nella ricerca e nell’attesa di qualche occasione. Passai davanti alla facciata  dell’Università Kossuth Lajos: una villa grande e bella di fine Ottocento, di stile che forse si può chiamare  neoclassico asburgico o Kaiser Königlich, imperial regio, tipico della Kakania.
Mi fermai per osservare intanto l’esterno come preludio. Dentro c’erano, come prevedevo e  subito dopo avrei visto, le aule delle lezioni, il bar dove avremmo preso il caffè negli intervalli,  la grande sala dove avremmo ballato nelle sere delle feste solenni, sempre osservandoci con interesse a vicenda, poiché sicuramente non ero l’unico io, né uno dei pochi a essere andato là proprio per cercare l’amore, anche se, forse, ero stato il solo a dichiararlo appena arrivato facendomi compatire e deridere.
In realtà sapevo che Eros prepara tali luoghi di incontro tra noi umani per renderci amici o amanti, diventando nostra guida nelle feste, nelle danze, nei sacrifici[1].
Davanti alla facciata c’è una fontana rettangolare ferace di alti zampilli che di giorno riflettono rapidamente i raggi del sole, e di notte, accese le luci, fanno piovere gocce multicolori sul manto della grande madre terra, mesta dal tramonto all’alba per la sua condizione di vedova che la graziosa luna e tutte le vaghe stelle non bastano a consolare dell’assenza notturna del radioso marito. Dopo avere osservato questi esterni, entrai nell’edificio che sarebbe diventato il tempio dove vidi l’inizio delle mie gioie. E, grazie a Dio, non ne ho ancora visto la fine.
La zia Rina volle profanare questo mio sentimento del santo e del  sacro dicendo che dovevo perdere il vizio di recarmi “in quel casino di Debrecen”.  La cristianissima sorella della madre mia considerava empia la mia religione e gli altari dove pregavo come un sacerdote devoto agli dèi: Zeus, Apollo, Dioniso, Eros  non senza Priapo. Dèi per niente “falsi e bugiardi” come ha sostenuto un  grande poeta completamente pazzo.

Bologna 25 dicembre 2018. giovanni ghiselli

p.s. 
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[1] Cfr. Platone Simposio, 197d

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