giovedì 13 dicembre 2018

Lucano, "Pharsalia". Parte IV

Foro romano

La vana fama, la fama inconsistente arriva a Roma
Cfr. fama bella constant di Curzio Rufo.
Alessandro Magno ricorda ai suoi oppositori macedoni che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit[12] le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità.
Cfr. pure 3, 8, 7 dove pure Dario III dice “fama bella stare”.

A Roma la Fama diffonde anche notizie false e comunque tutte spaventose
Dicono che le truppe ausiliare galliche hanno ricevuto l’ordine di distruggere Roma. Sic quisque pavendo-dat vires famae (484-485).
Non solo il popolo ma anche la Curia ha paura. Il Senato in fuga affida al console Marcello gli odiosi decreti (coscrizione dei cittadini, sequestro del tesoro di Stato e degli ex voto, Cassio Dione, 41, 63; 7, 1).
La folla impazzita corre attraverso la città. Fuggono come quando pilota e marinai si gettano da una nave che il turbidus Auster colpisce e il legno scricchiola. Desilit in fluctus deserta puppe magister –navitǎque (501-502). Sic urbe relicta-in bellum fugitur, è per andare incontro alla guerra che si fugge.
Ruit irrevocabile vulgus (509). E’ una inopinata iunctura, inaspettata.
Ci si aspetta che l’aggettivo venga riferito al tempo come in Lucrezio De rerum natura, I, 468: “irrevocabilis abstulerit iam praeterita aetas” l’oggetto sono le generazioni umane (saecla hominum, 467) già portate via dall’irrevocabile tempo passato.
Dunque ignavae manus, forze militari vigliacche abbandonano Roma.
In terre lontane i soldati romani si difendono exiguo vallo con una sottile palizzata e un subitus agger un terrapieno improvvisato con zolle di terra fa loro dormire sonni tranquilli dentro le tende, mentre “tu tantum audito bellorum nomine, Roma.” desereris (518-519), soltanto al nome di guerra vieni abbandonata.
 Pompeio fugiente, timent (521)
Si videro anche prodigi sinistramente ominosi come “fulgura fallaci micuerunt crebra sereno” (530), oppure la luna terrarum subitā percussa expalluit umbrā (539) colpita dall’ombra improvvisa della terra.
 Il sole caliginoso avvolse di tenebre il mondo.
La fiamma che mostra la conclusione delle Ferie latine scinditur in partis geminoque cacumine surgit –thebanos imitata rogos (551-552).
Poi le Alpi si scrollarono di dosso dalle vette oscillanti la neve antica: “veteremque iugis nutantibus Alpes –discussere nivem (553-554). Il mare invase Gibilterra, dirasque volucres- foedasse diem accipimus (559), uccelli di malaugurio sporcarono la luce del giorno “crinemque rotantes-sanguineum populis ulularunt tristia Galli” (566-567) gridarono al popolo parole di auspicio sinistro.
Cfr. l’episodio della Magna Mater in Lucrezio (De rerum natura, II, 600 ss.)

 Ingens urbem cingebat Erinys (572)- excutiens pronam flagranti vertice pinum- (57), faceva il giro della città un’Erinni gigantesca scuotendo una fiaccola di pino rovesciata con la cima che bruciava, stridentisque comas e le chiome che sibilavano.
Come quella che spinse Agave contro Penteo o Licurgo contro Dioniso o come Megera che fece impazzire Ercole (in Seneca Hercules Furens 982; nell’Eracle di Euripide è Lyssa)
Apparvero anche gli spettri di Mario e di Silla.
Haec propter, placuit Tuscos, de more vetusto-acciri vates” (584-585)
Il più vecchio maximus aevo “Arruns incoluit desertae moenia Lucae” 586 abitava le mura della città abbandonata
Sapeva interpretare bene i movimenti dei fulmini, le vene calde delle viscere degli animali et monitus errantis in aere pinnae (588).

Nell’Inferno di Dante (XX, 46-51) Arrunte è vicino a Tiresia (“Arrunte è quei ch’al ventre li s’atterga”. Cerchio VIII, bolgia IV, gli indovini.
Egli “nei monti di Luni (…) ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca-per sua dimora, onde a guardar le stelle-e ‘l mar non li era la veduta tronca”.

Per prima cosa Arrunte ordina che siano tolti di mezzo i mostri nati senza seme da una natura in discordia con se stessa, monstra iubet primum quae nullo semine discors- protulerat natura (590).
Poi c’è una processione di sacerdoti con l’augure esperto nell’osservare gli uccelli di sinistra “et doctus volucres augur servare sinistras”, 601 (di buon augurio per i Romani, di cattivo augurio per i Greci),
poi i Salii che portano gli scudi sul collo lieto-“et Salius laeto portans ancilia collo” (603) e i Flamini con il berretto a punta.
 Arrunte seppellisce maesto cum murmure le cose colpite dal fulmine. Poi sacrificò un toro la maxima victima, ma questa non riuscì gradita agli dèi e dalla ferita slabbrata uscì, invece di sangue rosso, del pus nero-“nec cruor emicuit solitus, sed vulnere laxo-diffusum rutilo nigrum pro sanguine virus”. Palluit attonitus Arruns e nelle viscere strappate cercò quale fosse l’ira degli dèi: “atque iram superum raptis quaesivit in extis” (617).
Cor latet, il cuore non si vede, le viscere mandano fuori sangue corrotto, il fegato presenta due lobi.

Simili risultati del sacrificio nell’Oedipus di Seneca: "cor marcet aegrum penitus, ac mersum latet,/liventque venae; magna pars fibris abest;/et felle nigro tabidum spumat iecur" (vv. 356-358), il cuore malato è marcio profondamente, e rimane nascosto colato a fondo, le vene sono livide; alle fibre manca grande parte; e il fegato schiuma putrefatto in un fiele nero.
Sono tutti simboli: il cuore marcio che si nasconde allude ai sentimenti malati e obbrobriosi della famiglia, il fegato[13] putrefatto alle passioni pervertite e letali, le fibre carenti alla vita caduta a terra e incapace di risollevarsi, le vene livide all'invidia delle corti.

Arrunte capì che il destino assegnava grandi mali.
 L’Etrusco però prega che non ci sia verità in quei segni e che Tagete il fondatore dell’arte si sia inventato tutto et fibris sit nulla fides e Tages conditor artis finxerit ista (637).
Il Tuscus dunque profetava aggirando i presagi e coprendoli con l’ambiguità tegens ambage (638).
Ma Nigidio Figulo[14] disse: se è il Destino a muovere le stelle, a Roma e al genere umano si sta preparando la rovina.
Imminet armorum rabies, ferrique potestas
Confundet ius omne manu, scelerique nefando
Nomen erit virtus multosque exībit in annos
Hic furor. Et superos quid prodest poscere finem?
Cum domino pax ista venit (666- 670), questa pace giunge insieme a un padrone
Roma rimarrà libera solo per il tempo della guerra civile civili tantum iam libera bello. Poi ci sarà la dittatura.

Cfr. Tacito : omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit (Hist .I, 1), fu utile alla pace.
 Chi vuole la libertà deve affrontarne le battaglie, chi preferisce la pace deve accettarne la servitù.
Tacito rifiuta le res novae e i molitores rerum novarum, i macchinatori del disordine, egli è il cittadino romano “che vuole in Roma la pace per portare la guerra nel mondo” (Tacito di Concetto Marchesi, p. 119)
Tacito del resto denuncia l’asservimento della società urbana: “At Romae ruere in servitium consules, patres, eques, Quanto quis inlustrior, tanto magis falsi et festinantes” (Ann. I, 7)
 Una donna corre invasata per l’Urbe rivelando urguentem pectora Phoebum, Febo che preme il suo petto (678). La donna antivede non vanamente la storia fino a Filippi. Vede Pompeo che giace deformis truncus fluminea harena, tronco deforme sulla rena del fiume, La guerra civile continuerà in senato con l’assassinio di Cesare. Poi riprenderà fino a Filippi.
Fine primo libro


FINE

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[7] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 199-200.
[8] P. e. Svetonio, Caesaris vita, 32.
[9] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.
[10] B. Brecht, Gli affari del signor Giulio Cesare, p. 22.
[11] Era stato partigiano di Pompeo.
[12] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 8, 15. Cfr. pure 3, 8, 7 dove Dario III dice “fama bella stare”.
[13] Gli aruspices, giunti in un primo tempo dall’Etruria, erano specializzati a leggere il futuro nel fegato delle vittime.
[14] Nato in una famiglia plebea, si suppone che il cognomen Figulus ("vasaio") derivi dalla sua dimostrazione della rotazione della Terra su se stessa (similmente alla ruota dei vasai); in uno scolio alla Farsaglia di Lucano è riferito che Nigidio ebbe il soprannome di "Figulo" ("vasaio") perché “regressus a Graecia dixit se didicisse orbem ad celeritatem rotae figuli torqueri” ("ritornato dalla Grecia disse che aveva imparato che la Terra gira con la rapidità del tornio del vasaio"). Fu forse tribuno della plebe nel 59 a.C.[2] e pretore nel 58 a.C.[3] Fu amico di Marco Tullio Cicerone, che ci informa di una legazione di Nigidio in Asia Minore nel 52 a.C.[4] Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo, si schierò in favore di quest'ultimo.[5] Costretto all'esilio da Gaio Giulio Cesare nel 46 a.C., si appellò contro il provvedimento col patrocinio di Cicerone. Nigidio morì pochi mesi dopo, nel 45 a.C. (come ci ricorda Svetonio).

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