giovedì 27 dicembre 2018

La passione del potere. La vanità del potere. Parte 2

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Aristofane denuncia ridendo la parzialità, contraria ai ricchi, dei tribunali popolari ateniesi, nella commedia Sfh`ke~ (le Vespe, del 422). Un vecchio giudice dell’Eliea, Filocleone. che prende la modesta paga di tre oboli al mese, esulta per il potere che il suo ruolo gli conferisce: tutti lo adulano e corteggiano, in casa e fuori, e “quando io fulmino-dice- schioccano con le labbra per paura e se la fanno adosso ricchi e nobili (vv. 626-628). E anche tu –rivolto al figlio Bdelicleone- mi temi. Ma il giovane, che ha schifo di Cleone, lo convincerà che il demagogo usa lui e altri stupidi vecchi fanatici compensandoli con una misera paga rispetto ai propri colossali profitti.

“l’istanza fatta valere dalla demoktratia ateniese (“ il popolo sia al di sopra di tutto col suo deliberare (boulesthai) viene in parte vanificata (o contenuta) attraverso il meccanismo della circolarità masse-capi. E’ Teramene il grande regista del processo delle Arginuse! Il demo crede di imporre il proprio volere ma è lui che lo pilota, anche attraverso i “retori minori”… Quella circolarità riemerge, sulla scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del “popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”1.
Sentiamo quindi Polibio: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (6, 4 , 4), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua Polibio, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia. Il fatto che Polibio più avanti scriva (9, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.

Luogo simile in Cicerone: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
“E appunto qui riesce opportuna la lettura diretta e attenta dei testi: perché ne risulterà che la democrazia della quale parlano gli scrittori greci del V e del IV secolo non è quella democrazia che consiste nel regime di libertà e di uguaglianza, bensì quella che ci rappresenta efficacemente Aristotele quando la definisce il governo dei poveri nel loro particolare interesse. Dei poveri, si badi, e non, come si ode spesso ripetere a proposito di questa definizione aristotelica, dei molti o della maggioranza…Ora, è perché la democrazia è il governo di classe nel quale i poveri-noi oggi diremmo il proletariato- hanno il potere, che Aristotele la considera forma di governo degenere: e non certo perché in essa regnino la parrhesìa e l’isonomìa, la libertà e l’uguaglianza. Anzi, ciò che Aristotele deplora nella democrazia è che il popolo-cioè, ripeto, il proletariato-vi tenda ad essere “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), padrone delle leggi e non soggetto ad esse, e conseguentemente non vi siano la libertà e l’uguaglianza, che soltanto dall’assoluta sovranità della legge, e non da quella di un uomo o di una classe, sono assicurate. In altre parole, Aristotele condanna la demokratìa perché è un regime di classe socialistico, e contrappone ad essa come corrispondente forma retta di governo quella-la politèia- in cui governa la maggioranza sì, ma sono sovrane le leggi: lo Stato di diritto insomma, lo Stato di democrazia liberale”2.
Invero Aristotele nel passo citato sopra da Fassò “kuvrio~ tw'n novmwn” (Politica, 1298b), non si riferisce solo alla democrazia ma pure un ordinamento oligarchico estremo: quando poi coloro che detengono la sovranità nei corpi deliberativi si scelgono gli uni con gli altri, quando il figlio succede al padre nel posto che wuwsti ha lasciato libero, quando costoro pretendono di essere padroni delle leggi, allora è necessario che questo sia un ordinamento oligarchico estremo (ojligarcikwtavthn tavxin).

Il potere delle leggi
Nella Politica, Aristotele afferma che dove le leggi non sono sovrane appaiono i demagoghi, in quanto allora diventa sovrano il popolo. Un popolo del genere diventa dispotico in quanto non è governato dalla legge. In questa situazione sono reputati gli adulatori, e una democrazia di tale fatta corrisponde alla tirannide. Infatti le decisioni dell’assemblea corrispondono agli editti del tiranno e il demagogo corrisponde all’adulatore. Il popolo è sovrano di tutto, il demagogo lo è dei sentimenti del popolo. Dunque ha ragione chi dice che tale democrazia non è una vera costituzione, poiché non c’è costituzione dove non comandano le leggi ( o[pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva, 1292a).
Nella democrazia radicale c’è l’oppressione sui migliori attraverso i decreti (yhfivsmata) che prevalgono sulle leggi (novmoi). Così nella tirannide gli editti ejpitavgmata prevalgono sulle leggi.
Si può pensare al khvrugma di Creonte nell’Antigone di Sofocle (v. 8)

Nella Costituzione degli Ateniesi , scritta negli ultimi anni di vita, il filosofo di Stagira (384-322 a. C.) passa in rassegna gli 11 regimi che si sono succeduti ad Atene e nota gli errori seguiti alla riforma di Efialte che abbatté il potere dell’Areopago: da allora il governo commise più errori a causa dei demagoghi dia; th;n th'~ qalavssh~ ajrchvn (41, 2), per il potere sul mare. Dopo la spedzione in Sicilia ci fu la costituzione oligarchica dei Quattrocento e la tirannide dei Trenta, quindi, con la restaurazione democratica, il popolo si è reso padrone assoluto di ogni cosa: “aJpavntwn ga;r aujto;~ auJto;n pepoivhken oJ dh'mo~ kuvrion” (41, 2). Aristotele preferisce un governo affidato al ceto dei possidenti.

Nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenefontea il dialogante A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso il potere e ha reso forte la città in quanto è il popolo che fa andare le navi o{ti oJ dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau'~ (1, 2).

Vanità delle leggi, loro impotenza nei confonti dei ricchi
Nella Vita di Solone di Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte attribuita ad Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque derideva l’opera del legislatore che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4), ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (uJpo; de; dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le leggi dunque colpirebbero solo i deboli.
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche”3.
Sofocle nell’Antigone e nell’Edipo re pospone le leggi scritte a quelle divine, di Delfi, del Parnaso e dell’Olimpo ma nell’Antigone esse colpiscono la nipote del re e conseguentemente il figlio e la moglie di Creonte, quindi il re stesso.

Difesa delle leggi scritte
Nelle Supplici di Euripide, Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv, vv. 430-431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t j ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti.

Nella storia romana "la maggiore singolarità" è data dal fatto che i primi legislatori "e soprattutto il loro capo Appio Claudio siano stati deposti per la loro indegna tirannide" mentre diversi altri "veri o mitici legislatori, Licurgo, Solone, Zaleuco, Mosé, sono dalla tradizione circonfusi da un'aureola di luce che li rende santi e venerabili". Il fatto è che Appio Claudio e i decemviri legibus scribundis del 451/450 agirono in favore della plebe:
" Di contro alla prepotenza patrizia, ordinatasi nel sec. V la plebe a Stato entro lo Stato, due furono le concessioni che prima cercò di ottenere: leggi eguali per tutti, e una parte per tutti i cittadini nel governo della repubblica. A soddisfare l'una e l'altra richiesta si accinsero i decemviri". Di qui la reazione dei patrizi:"Come dalla decadenza della monarchia, così dalla caduta del decemvirato trassero sul momento vantaggio i soli patrizi. E dell'una e dell'altra spetta quindi ai patrizi la responsabilità"4.

Le leggi valgono meno dei mores
Tacito nella Germania nota:"paucissima in tam numerosa gente adulteria ", quindi aggiunge:"nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur " (19), e conclude polemicamente il capitolo:"plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges ".
La sua conclusione “Corruptissima re publica plurimae leges" (Tacito, Annales, III, 27), quanto più è corrotto uno Stato, tanto più numerose sono le leggi.
“E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano se già le non son mosse da uno che con estrema forza le faccia osservare tanto che la materia diventi buona; il che non so se si è mai intervenuto o se fosse possibile ch’egli intervenisse”5.

Critica al piacere e alla dissolutezza delle donne legata a uno Stato di guerrieri. La propaganda antispartana
Nelle Leggi di Platone, l’Ateniese ricorda allo Spartano che l’ideale guerriero della sua città non si cura abbastanza di esercitare la capacità di resistenza al piacere, e aggiunge che non sarebbe difficile per chi volesse difendere le leggi di Atene criticare le norme spartane indicando la licenza delle loro donne: “deiknu;~ th;n tw`n gunaikw`n parj uJmi`n a[nesin “(637c).
Nell’Andromaca di Euripide, Peleo, il nonno di Neottolemo, esecra le Spartane e i loro costumi: neppure se lo volesse potrebbe restare onesta6 ("swvfrwn", v. 596) una delle ragazze di Sparta che insieme ai ragazzi, lasciando le case con le cosce nude ("gumnoi'si mhroi'"", v.598) e i pepli sciolti, hanno corse e palestre comuni, cose per me non sopportabili " ( vv.595-600).
L’Andromaca, scritta nei primi anni della guerra del Peloponneso, mostra un disgusto per l’arroganza, la crudeltà e la tortuosità degli Spartani.
La stessa protagonista lancia un anatema contro la genìa dei signori del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~ :" o i più odiosi (e[cqistoi) tra i mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri fraudolenti, signori di menzogne, tessitori di mali,che pensate a raggiri e a nulla di retto, ma tutto tortuosamente, senza giustizia avete successo per la Grecia (vv.445-449).

Nel dialogo tucididèo tra Melii e Ateniesi questi biasimano i loro nemici con minore virulenza: “ I Lacedemoni fanno uso della virtù soprattutto verso se stessi e le istituzioni del loro paese. Ma verso gli altri, pur potendo uno dire molte cose su come si comportano, riassumendo al massimo, si potrebbe dimostrare che essi nel modo più evidente tra quelli che conosciamo, considerano il piacevole bello e il conveniente giusto" (Storie, V, 105, 4).

Nella Repubblica di Platone il sofista Trasimaco contrapponendosi a Socrate sostiene che il giusto non è altro che l’utile del più forte: “fhmi; ga;r ejgw; ei\nai to; divkaion oujk a[llo h] to; tou` kreivttono~ sumfevron ”, 338c.


CONTINUA

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1 Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS BASILEUS, p. 59
2 G. Fassò, La democrazia n Grecia, p. 11.
3 Frammenti postumi, 1876, 14
4 G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pp. 46-48.
5 Machiavelli, discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 17.

6 Plutarco dà un'interpretazione non malevola dello stesso fatto: il legislatore volle che le fanciulle rassodassero il loro corpo con corse, lotte, lancio del disco e del giavellotto (…) per eliminare poi in loro qualsiasi morbidezza e scontrosità femminile, le abituò a intervenire nude nelle processioni, a danzare e a cantare nelle feste sotto gli occhi dei giovani (Vita di Licurgo , 14). E' interessante il fatto che Erodoto (I, 8) viceversa fa dire a Gige il V antenato di Creso re di Lidia:"la donna quando si toglie le vesti, si spoglia anche del pudore".  

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