mercoledì 17 giugno 2015

"Medea" di Seneca e "Supplici" di Eschilo

Le Danaidi di J.W. Waterhouse

Associazione Culturale Italo Tedesca di Siracusa
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Cari soci ed amici,
venerdì 19 giugno 2015 alle ore 18, 00, presso l'Hotel Parco delle Fontane, Viale
Scala Greca n. 325, in collaborazione con l’A. M. M, I. (Associazione Nazionale Mogli
Medici) e FEDER. S. P. e V. (Federazione Nazionale Sanitari Pensionati e Vedove), il
Prof. Giovanni Ghiselli, già docente ordinario di greco e latino nei licei classi di
Bologna, professore a contratto nelle Università di Bologna, Urbino, Bressanone,
membro del direttivo del Centrum Latinatis Europae, terrà una conversazione dal
titolo Ifigenia, Medea e altre donne della tragedia antica.
Al termine della conferenza, per gli amici che vorranno parteciparvi, è prevista una
riunione conviviale con il relatore presso il ristorante - pizzeria L'Ottavo Peccato,
sito in Traversa Sinerchia 1/F.
Coloro che vorranno parteciparvi, sono pregati di telefonare allo 0931-32741 entro le
ore 22 di giorno 16.
IL PRESIDENTE
Avv. Giuseppe Moscatt


19 giugno 2015
Medea di Seneca e Supplici di Eschilo


Medea di Seneca
Medea è l’anti-Ifigenia. La ragazza trova la propria identità nel sacrificio di se stessa, Medea nell’assassinio dei figli. Le parole chiave del dramma di Seneca sono queste: Medea superest; hic mare et terras vides, /ferrumque et ignes et deos et fulmina “ (vv. 166-167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
Un’identità che riassume il mondo, senza cielo, e il caos. Un’identità cosmica o piuttosto caotica.
Il dramma inizia con la preghiera nera di Medea che invoca (voce non fausta precor, 12) il Caos della notte eterna ed Ecate triforme[1].
La donna cerca di diventare quello che è compiendo crimini orrendi e completando la propria identità scellerata.
Da ragazza, ella ricorda, tradì il padre, uccise e fece a pezzi il fratello Apsirto, per amore di Giasone, ma ora che è sposa e madre andrà oltre: “levia memoravi nimis: / haec virgo feci; gravior exurgat dolor: / maiora iam me scelera post partus decent “ (vv. 48-50), ho ricordato misfatti troppo leggeri: questi li ho compiuti da ragazza; sorga un dolore più opprimente: maggiori delitti mi si addicono dopo il parto.
Segue la preghiera santa del I coro di Corinzi: il canto per le nozze di Giasone e Creusa.

Il secondo atto è costituito da un dialogo tra Medea furente e la nutrice che cerca di calmarla. La chiama Medea e la donna risponde fiam (172), lo diventerò. Deve pellere femineos metus e indossare mentalmente il Caucaso (42-43). Cfr. Il determinismo geografico.
Poi arriva Creonte che le impone di andarsene (vade veloci via 190), l’allitterazione sembra mimare un soffio che allontana.
Medea ottiene la brevem moram (288) di un giorno.
Creonte ne ha paura (fraudibus tempus petis, 290), pensa che basti poco tempo ai malvagi per il delitto (nullum ad nocendum tempus angustum est malis, 292), tuttavia si lascia convincere.
Segue il II Coro (301-379) con un luogo cruciale della Medea: la maledizione del navigare che crea confusione unificando popoli che devono rimanere separati.
I Corinzi esecrano la navigazione come attività troppo audace per l'uomo: “ Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/ “ (vv. 301-302308), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti
 Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia ha trovato degni antagonisti nei freta perfida

E' la stessa u{bri “ di Serse il quale, secondo Eschilo, tentò di trattenere con vincoli la sacra corrente e di unificare ciò che deve restare diviso.
Bene dissaepti foedera mundi/ traxit in unum Thessala pinus, /iussitque pati verbera pontum (334-336), unificò le regole del cosmo ben separato la nave tessala e ordinò che il mare patisse le frustate dei remi.
Il pretium (361) dell’impresa argonautica (huius cursus) è stato Medea emblema e incarnazione del Caos e del furor che vuole infliggere ferite.
L’orbis pervius, con tutte le strade aperte, apre la via alla confusione.

Il terzo atto (380- 670) si apre con un dialogo tra la nutrice e Medea il cui furore straripa (exundat furor, 392) e crescet semper (407), crescerà sempre come dice la stessa Medea che aggiunge sternam et evertam omnia (414), abbatterò e rovescerò tutto. “Amor timere neminem verus potest “ (416)
Quella dell'amore, quando c'è, è la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amoriEcloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama.
Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata: “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis! “ (v. 412), malvagio Amore, a cosa non spingi i petti mortali!

Vuole trascinare tutto in rovina con sé: mecum omnia abeant (428).
Arriva Giasone che dice di sposare la principessa di Corinto per i figli: nati patrem vicēre (442)
Medea gli rinfaccia l’aiuto che gli ha dato, anche danneggiando se stessa: “quascumque aperui tibi vias, clausi mihi “ (458).
E gli rimprovera l’ingratitudine: ingratum caput (465).
Giasone le ricorda la propria intercessione presso Creonte che voleva ucciderla, e lei risponde sarcasticamente: poenam putabam: munus, ut video, est fuga “ (492). Inoltre lui è il mandante dei delitti: cui prodest scelus, is fecit (500-501). Medea rinnega i figli comuni cui invece Giasone tiene molto
Allora la lucida follia vede dove può colpire e dice fra sé: “sic natos amat? /Bene est, tenetur, vulneri patuit locus “ (549-550), ama così i figli? Va bene, ce l'ho in pugno, si è aperto un varco per la ferita. Poi finge sottomissione. Ma pensa alla vendetta: fructus est scelerum tibi- nullum scelus putare (564-565).
Il conflitto tra i coniugi è diventato una vera e propria guerra. “Eros si associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo[2], nelle Opere e Giorni, colloca “alle radici della terra “ (v. 19) “[3].

Il terzo coro torna a condannare i profanatori del mundus, kovsmo “, antonimo di chaos.
Gli Argonauti hanno prima devastato i boschi del Pelio (nemoris sacri Pelion densa spoliavit[4] umbra, 608-609) poi hanno solcato il pelago per impossessarsi dell'oro, ma: exigit poenas mare provocatum (v. 617). L'exitus dirus la morte orribile (cfr. v. 615) è l'espiazione della rottura dei sacrosancta foedera mundi. C’è l’elenco degli Argonauti finiti male
Tra gli altri Tifi che sarebbe stato re dell’Aulide e la regione memor amissi regis, memore del re perduto, portibus lentis retĭnet carinas-stare querentes (623-624) trattiene le navi che vogliono partire nelle gore dei suoi porti
Il coro chiede venia per Giasone: parcite iusso (669).

IV atto
Medea è scelerum artifex (734) e prepara veleni inauditi con un’anticipazione delle streghe del Macbeth. Mescola alle erbe mortali, bava di serpenti e pezzi di uccelli di cattivo augurio.
I veleni letali della terra non le bastano: “Parva sunt-inquit-mala, /et vile telum est, ima quod tellus creat: /coelo petam venena. Iamiam tempus est/aliquid movēre fraude vulgari altius “ (vv. 691-694), sono piccoli malefici-dice- e vale poco l'arma che la bassa terra produce: al cielo chiederò i veleni. Oramai è già tempo di scuotere qualche cosa di più alto che un artificio volgare.
Cfr. Eliot e il “darsi animo “ dell’eroe tragico.
Le preghiere nere evocano le forze del male: il Chaos coecum, i criminali del Tartaro, Ecate pessimos induta vultus (752). Il mondo deve cadere nella confusione.
Medea manda i figli dalla nuova sposa perché le portino i doni letali che ha preparato.

Nel quinto atto c'è il racconto della catastrofe. Un nuntius ne dà notizia: “Periēre cuncta! concĭdit regni status!/Nata atque genitor cinere permixto iacent! “ (vv. 879-880), è andato tutto in malora, è caduta la potenza del regno!, la figlia e il padre sono a terra in una cenere confusa!
Qua fraude capti? “ domanda il Coro, presi da quale inganno? E il nuntius: “Qua solent reges capi: / donis “ (vv. 882-883), quella dalla quale di solito vengono presi i re: i doni.
Esemplare in questo senso è la vicenda di Policrate di Samo il quale finì ucciso dal satrapo di Sardi Orete che lo aveva attirato, promettendogli doni di ricchezze, in un tranello dove questo tiranno cadde poiché era davvero avido di denari ( “iJmeivreto ga;r crhmavtwn megavlw “ “, Erodoto III, 123).
Medea sente di poter raggiungere la pienezza della propria identità moltiplicando e rendendo sempre più atroci i delitti: “ Medea nunc sum; crevit ingenium malis/ Iuvat, iuvat rapuisse fraternum caput;/artus iuvat secuisse et arcano patrem/spoliasse sacro, iuvat in exitium senis[5]/ armasse natas. Quaere materiam, dolor: /ad omne facinus non rudem dextram afferes “ (Medea, vv. 910-915), Ora sì che sono Medea, il mio genio è maturato nel male. Mi piace, mi piace avere strappato la testa al fratello; mi piace averne segate le membra, e avere spogliato mio padre del suo misterioso idolo[6], mi piace avere armato le figlie alla distruzione del padre. Cercati un bersaglio, dolore: ad ogni delitto spingerai una destra non inesperta (914-915).
La madre ha qualche attimo di ripensamento (cor fluctuatur, 943 con metafora nautica, cede pietati dolor, 944) che però viene respinto: ira, quā ducis, sequor (953).
Medea, dimidiata dall’abbandono, si ricostituisce intera attraverso il delitto
Dopo avere ucciso il primo figlio, alla madre assassina sembra di avere recuperato il regno e la verginità: rediēre regna! rapta virginitas redit! (v. 984).
Ancora un’anti-Ifigenia che è vittima volontaria del padre. Medea è la madre carnefice dei figli.
Quando arriva Giasone, Medea si autodrammatizza, quasi scavalcando l’autore: la madre assassina pregusta una voluptas magna: il marito si è aggiunto quale spectator: deerat hoc unum mihi/, spectator iste (vv. 981-982). Giasone la supplica dichiarandosi colpevole lui solo: si quod est crimen, meum est (v. 993). Medea affonda le armi nella ferita dell'uomo. Se c'è ancora qualche residuo di figlio in me, afferma “scrutabor ense viscera, et ferro extrăham “ (v. 1002).
 Poi uccide il secondo bambino, ma adagio, per accrescere il dolore di Giasone: perfruĕre lento scelere; ne propĕra, dolor! (1005). Quindi la missione è compiuta: bene est: peractum est (v. 1008). Medea è diventata quello che è: coniugem agnoscis tuam? (1010). Il suum esse del De brevitate vitae[7] è rivendicato da Medea in tutta la tragedia
Medea compie la negazione della propria femminilità iniziata nel primo atto (vv. 40-43): “ Per viscera ipsa quaere supplicio viam, /si vivis, anime, si quid antiqui tibi/remanet vigoris;/ pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue “, attraverso le viscere stesse cerca la via per il castigo, se sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico vigore; scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale.
Giasone chiede di essere lui stesso la vittima invece del secondo figlio, ma Medea risponde: misereri iubes (1018). Sarebbe un atto di misericordia. E aggiunge: coniugem agnoscis tuam? (1021). Poi la fuga: patuit in caelum via (1022) due draghi piegano il collo squamoso al giogo.
L’orrendo delitto di Medea nega la presenza degli dèi agli occhi di Giasone: Il padre privato dei figli chiude la tragedia gridando all'assassina di attestare che per dove passa non esistono gli dèi: “Testare, nullos esse, qua veheris, Deos “ (v. 1016) “E' l'antiapoteosi finale “[8].

Similmente Tieste dopo che Atreo gli ha rivelato l'abominio compiuto grida: “Fugēre Superi “ (Thyestes, v. 1022), gli dèi sono fuggiti!
Medea è la negazione del bene e della provvidenza. Nelle Troiane di Seneca questo ruolo è svolto da Elena che Andromaca apostrofa con: “Pestis exitium lues/utriusque populi! “ (vv. 892-893), peste, rovina, calamità dell'uno e dell'altro popolo!



Le Supplici di Eschilo

Queste giovani che formano il Coro del dramma[9] sono le Danaidi, cioè le cinquanta figlie di Danao le quali, aujtogenei' fuxanoriva/ (v. 8 feuvgw, ajnhvr), per connaturata avversione all'uomo, fuggono accompagnate dal padre, volendo evitare le aborrite nozze con i cinquanta cugini figli di Egitto i quali le inseguono.
Le fanciulle, giunte ad Argo, invocano la protezione del re del luogo Pelasgo, siccome sono di origine argiva: discendono infatti da quella Io, figlia del re di Argo, Inaco, che era stata resa pazza e trasfigurata in una mucca[10] assillata da un tafàno in conseguenza dell'amore di Zeus e della gelosia di Era. Una storia raccontata nel Prometeo incatenato altra tragedia attribuita, con alta probabilità, a Eschilo
Queste odiatrici delle nozze vedono nei cugini pretendenti uno sciame, denso di maschi, violento (ajrsenoplhqh' d j-eJsmo;n uJbristhvn, vv. 30-31 a[rshn e plh`qo~, pieno di maschi) e lanciato al loro inseguimento.
Le cinquanta femmine costituiscono una folla impaurita, giunta dall’Egitto con rami avvolti in bende di lana[11] (ejriostevptoisi klavdoisin, v. 23 e[rion, lana e stevfw, corono).

Nell’ Ifigenia in Aulide, il ramo dei supplici è il corpo stesso della ragazza che Clitennestra ha partorito (iJkethrivan de; govnasin ejxavptw sevqen-to; sw'ma toujmovn, o{per e[tikten h{de soi “ 1216-1217). Ifigenia appende al padre il proprio corpo.
Il matrimonio per le Danaidi è sinonimo di orrori: le fanciulle in preda al terrore assimilano la loro voce a quella di Procne, la sposa di Tereo (v. 61) trasformata in usignolo (ajhdwvn, 63) dopo che ebbe ucciso il figlio Iti per punire il marito il quale le aveva violentato la sorella Filomela. Tereo fu a sua volta mutato in upupa, e la cognata, così barbaramente stuprata, in rondine.
Viene ripetuto il motivo dell'inimicizia mortale tra gli uomini e le donne che pure appartengono alla stessa specie.
Un odio empio, nota subito Danao: “come può restare puro l'uccello che divora l'uccello? “ (o[rniqo~ o[rni~ pw`~ a}n aJgneuvoi fagwvn ; v. 226)
Le Supplici di Eschilo[12] hanno pure una parte politica che attualizza il mito facendovi entrare la democrazia
Nel primo episodio entra in scena Pelasgo che si presenta come “capo di quella terra “ (v. 251) e avverte la corifea che la città non ama i discorsi lunghi (makravn ge me;n dh; rh'sin[13] ouj stevrgei povli “, v. 273). E' l'affermazione della giusta misura che non può essere ipertrofica[14]
Pelasgo, sebbene monarca, rende omaggio alla democrazia affermando solennemente: “io non posso fare promesse prima- di avere reso questo problema comune (koinwvsa “) a tutti i cittadini “(vv. 368-369).
 E quando le Danaidi ribattono: “tu sei la città, tu incarni il potere del popolo, - signore che non subisce giudizi (a[krito “, vv. 370-371), il monarca ribadisce: “te l'ho detto anche prima: senza il popolo (a[neu dhvmou) non posso agire neppure con il potere che ho “(vv. 398-399).
Poi Pelasgo aggiunge che occorre un pensiero profondo, in grado di dare salvezza[15] (dei' toi baqeiva “ frontivdo “ swthrivou), e capace di scendere nell’abisso, simile a un tuffatore (divkhn kolumbhth'ro “), con occhio vigile e non ebbro (vv. 407-409).
Pelasgo dice che è uno spreco amaro (tajnavlwma pikrovn 476) che degli uomini versino sangue per delle donne-gunaikw`n ou{nec j aijmavxai- eppure è necessario temere l’ira di Zeus che protegge i supplici: infatti è la paura suprema (u{yisto “ fovbo~, 479) per i mortali
Ad Argo, e in Grecia, dunque, spiega Pelasgo, il re democratico delle Supplici: “la gente tende ad accusare (filaivtio~ lewv~) il potere[16] “ (v. 485), e la moltitudine probabilmente commisererà le Danaidi supplici: “e infatti qualcuno vedendo questi rami, e provando compassione, potrebbe sentire avversione per la prepotenza del maschio stuolo (u{brin a[rseno “ stovlou), e il popolo sarebbe più benevolo verso di voi: infatti ciascuno ha simpatia per i più deboli “(toi`~ h{ssosin ga;r pa`~ ti~ eujnoiva~ fevrei, 489). Cfr. il mito di Atene che protegge i supplici.
In effetti, al momento della votazione, “tutto il popolo votò alzando la mano favorevole “(Eschilo, Supplici, v. 607) alla proposta presentata dallo stesso Pelasgo di aiutare le ragazze vessate, non solo per pietà verso di loro, ma anche per schivare l'ira di “Zeus che protegge i supplici “(v. 616) ed evitare “la doppia contaminazione “(diplou'n mivasma, v. 619) che sarebbe derivata dal respingere giovani donne bisognose di protezione, straniere, quindi ospiti; e, al tempo stesso, concittadine per la loro origine, in quanto Io, la loro sesta antenata, era figlia di Inaco re di Argo.
 L'aiuto alle fanciulle raccomandato dal re con un breve discorso, venne dunque approvato dal popolo cersivn (v. 621), con alzata di mani, senza bisogno dell’araldo (a[neu klhth'ro~, v. 622) che chiamasse per nome.
Un popolo intero si espone al rischio di una guerra per non schivare il proprio dovere religioso.

Il codice tripartito
Del resto fu Zeus stesso a portare a termine l’operazione (v. 624).
Qui vediamo la fede nella democrazia, in Zeus, e la volontà di osservare le regole avite che prescrivevano di onorare e riverire i numi, i genitori, e gli stranieri non ostili. Cfr, l’Orestea.
Tale codice tripartito viene ricordato dal coro delle Danaidi: gli ospiti, gli dèi, il padre e la madre devono essere almeno rispettati: “infatti il rispetto dei genitori[17] (tokevwn sevba~) è la terza tra le leggi scritte della Giustizia venerandissima “(vv. 707-709).
il re di Argo avverte l'araldo degli Egizi che potrà portare via le donne solo se un discorso pio riuscirà a persuaderle (ei[per eujsebh; “ pivqoi lovgo “, v. 941).
L'intelligenza e la moralità devono succedere alla violenza nel rapporto tra i sessi.
Oggi viene continuamente stimolata una cattiva rivalità, il risentimento e perfino l’odio tra maschi e femmine, per il semplice motivo che le persone sessualmente insoddisfatte sono più facilmente manipolabili[18].
Alla fine del dramma le Danaidi pregano la casta Artemide di guardarle con compassione salvandole dalle nozze.
Ma il coro viene sdoppiato e le loro ancelle consigliano di non trascurare Cipride. Anche Afrodite è una dea venerata per le sue opere. Del suo corteggio fanno parte Desiderio, Persuasione seducente, e Armonia. Il pensiero di Zeus è imperscrutabile e il matrimonio potrebbe essere la realizzazione delle figlie di Danao come di molte donne prima di loro (Supplici, vv. 1049-1052).
La tragedia si conclude con le minacce dell'arrogante araldo egiziano contro gli Argivi difensori delle Danaidi le quali oppongono resistenza a ogni tentativo di aggiogarle a uomini aborriti. Esse pregano Zeus “di liberarle da nozze rovinose con sposi malvagi “(v. 1064) e che “conceda la vittoria alle donne “(kai; kravto “ nevmoi gunaixivn, v. 1069).
Eschilo tende ai compromessi e nelle sue tragedie non c'è mai un vincitore assoluto.
Alla fine della trilogia, Afrodite stessa compariva sulla scena celebrando la necessità cosmica di Eros. Risparmiando il marito, Ipermestra renderà omaggio alla dea dell'amore.

Sentiamo Perrotta sulle Supplici di Eschilo (In I tragici greci, Eschilo Sofocle Euripide, D’Anna, Messina-Firenze, 1971)
Le Danaidi sono colpevoli di u{bri “, una parola ripetuta tante volte nella tragedia. Colpevoli sono anche i loro pretendenti.
Le Supplici sono “misandre, nemiche di Afrodite e delle sue ineluttabili leggi “ (p. 20). Esse hanno orrore degli uomini in genere. Verso la fine della tragedia, nominano una sola divinità: Artemide casta. E’ la stessa unilateralità dell’Ippolito di Euripide.
Le ancelle oppongono un canto in onore di Afrodite.
Kuvprido “ d oujk ajmelei' qesmo; “ o{d j eu[frwn (1035), non trascura Cipride questo canto assennato. Afrodite è assistita da Povqo “ e Peiqwv, Desiderio e Persuasione, e del resto o[ tiv toi movrsimovn ejtiv, to; gevnoit j a[n (1048), quello che è destinato si compie.
Le nozze possono toccare anche a te, come a molte donne prima di te. Le ancelle suggeriscono alle Danaidi anche di pregare con parole più moderate: “mevtriovn nun e[po “ eu[cou “ 1060) di non caricare troppo il divino ta; qew'n mhde;n ajgavzein 1062 (a[gan). Ma le Danaidi chiedono kravto “ potere per le femmine (1069) “E’ evidente che anche le Danaidi peccano di mancanza di misura “ (p. 20). Solo Ipermetra non insisterà nell’ u{bri “ accettando Linceo per il desiderio di figli (Prometeo incatenato, 865). “Intenderà, cioè, una delle leggi supreme che governano il mondo “ (p. 21). Nella terza tragedia verrà Afrodite in persona a esaltare l’amore. Da Ipertesta e Linceo discenderà Eracle (Prometeo incatenato, 871 sgg.)
 “Il problema morale delle Supplici è, dunque, chiaro: v’è mancanza di moderazione dall’una e dall’altra parte. L’una e l’altra colpa sono punite da Zeus “ (p. 21). Perrotta data le Supplici al 490. La considera la prima delle sette tragedie di Eschilo e non considera eschilèo il Prometeo incatenato. I cori rivelano le idee teologiche di Eschilo. Zeus è onnipotente, nessun potere è superiore al suo (diversamente dal Prometeo) Zeus è in conoscibile e il suo pensiero va allo scopo attraverso fitte ombre che lo sguardo umano non penetra; ogni opera divina è senza sforzo; il suo potere è quello della giustizia. Già Esiodo aveva connesso Zeus con Diche. Lo Zeus di Eschilo è altra cosa rispetto all’Uno di Parmenide: “una specie di Javeh, com’è stato detto. Io integrerei, correggendo: un Javeh giusto “ (p. 23). La tendenza al monoteismo non esclude le credenze tradizionali: “Lo Zeus onnipotente e perfetto delle Supplici è anche l’amante di Io; lo Zeus giusto delle Eumenidi è anche il figlio di Crono che un giorno legò suo padre “ (p. 23)
“La stessa morale delle Supplici si ritrova nei Persiani…La morale dei Persiani, il suo fabula docet, si potrebbe riassumere in un verso solo, pronunciato dall’ombra del saggio Dario: “Quando un uomo si affretta alla sua perdita, anche il dio lo aiuta a rovinarsi “ p. 24 (o{tan speuvdh/ ti “ aujtov “, cwj qeo; “ sunavptetai (742), il dio lo assiste

Max Pohlenz, La tragedia greca, trad. it., Paideia, Brescia 1961 Die Grichische Tragödie 1954
La tragedia “è un atto cultuale e statale “. Il poeta scelto dallo stato deve interpretare “un brano di storia sacra “ (p. 13).
Tragico forse in origine aveva un nesso con travgo~ (capro) e wjdhv, canto, quindi “canto del capro “, ma poi significò disordine, frattura, crisi dell’ordine cosmico.
Goethe, il 6 gigno 1824, aveva detto al cancelliere Müller “La tragicità si fonda sempre su di un’antinomia inconciliabile. Ove intervenga o sia possibile una conciliazione, il tragico svanisce “ (p. 15)
Schiller invece “credeva nella conciliazione delle antitesi e la ravvisava nell’atteggiamento “sublime “ dell’eroe, che in virtù della sua libera azione morale affermava anche nella rovina la sua superiorità sul fato ineluttabile “ (p. 15)
Anche altri esponenti dell’idealismo tedesco come Hegel “hanno ravvisato nella conciliazione delle antitesi il fine della tragedia “
Con Schopenhauer la rovina dell’eroe divenne la conclusione necessaria del dramma
Eschilo tende a una conclusione conciliante, e la trova proprio in virtù della sua salda fede nel giusto ordine cosmico di Zeus.
L’uomo greco ha l’impulso a foggiare la vita secondo la propria misura, ma si trova davanti un destino, una moira che circoscrive la sua capacità di autodeterminarsi. Nella vita essi sentono qualcosa di divino.
Il divino non è lontano dai Greci come lo è dagli Ebrei e dai Cristiani. Saffo parla ad Afrodite come a un’amica intima. A Sofocle apparve Eracle in sogno e gli rivelò chi aveva rubato dal tempio di Eracle una patera aurea gravis, una coppa di oro massiccio. In somnis vidit ipsum deum dicentem qui id fecisset. Sofocle non gli diede importanza. Ma il sogno si ripeteva: allora il poeta ascendit in Arium pagum, detulit rem; Areopagitae comprehendi iubent eum qui a Sophocles erat nominatus. Il ladro confessò e restituì la coppa. Il tempio fu chiamato di Ercole inducatore quo facto fanum illud Indicis Herculis nomimatum est (Cicerone, De divinatione, I, 25). Nel mondo domina il logos e l’ordine, non il caos. Lo riconosce anche Aiace poco prima di suicidarsi (Aiace, 670 ss.: gli inverni nevosi cedono il passo alla fertile estate, la notte allo splendore del giorno) e così Giocasta nelle Fenicie.
Il destino avverso non avvilisce né umilia l’eroe che lo affronta intrepido. Quello che conta nella vita è dare prova del proprio valore. La Tucvh non può toglierci l’identità, se l’abbiamo.
L’arte dei Greci associa il mu`qo~ al lovgo~. Achille può scegliere e compie la scelta più difficile; Odisseo prevale sull’ira di un dio.
L’ u{bri~ è difetto di coscienza dei limiti. Gli dei olimpici non annientano le potenze delle viscere terrestri: Encelado, Tifone etc.
Eschilo rappresenta il contrasto tra dei vecchi e nuovi.
L’uomo greco cerca le cause.
Erodoto (V, 61) ricorda tagikoi; covroi, danze caprine eseguite all’inizio del VI secolo a Sicione in onore dell’eroe Adrasto. Ma Clistene, tiranno di Sicione restituì i cori a Dioniso.
Platone nel Cratilo (408c) nota il doppio senso di tragikov~, caprino (da travgo~) e pure tragico.
Il fulcro del culto dionisiaco è il ditirambo creato da Arione (Erodoto, I, 23). Nel 535 Pisistrato chiamò Tespi per l’allestimento artistico della grande festa di primavera in onore di Dioniso. Tespi introdusse il dialogo cui i Greci erano inclini. Aristotele nella Poetica (4? Non l’ho trovato) scrive che Tespi non creò una vera e propria tragedia ma piuttosto il dramma satiresco. Comunque Tespi ha posto un germe
Bacchilide ha lasciato un ditirambo drammatico con un dialogo tra Teseo e i giovani ateniesi.
La struttura della tragedia è determinata dalla contrapposizione tra il coro e il singolo, l’attore che è uJpokrithv~, colui che risponde.
Gli orrori non vengono messi in atto ma raccontati: la swfrosuvnh greca non tollerava l’orrore dell’atto sanguinoso. L’uomo greco cerca il logos: il senso delle cose. Il coro dice quello che il dio ha ispirato al suo profhvth~. Il coro cerca il senso profondo degli avvenimenti.
Dioniso è originario della Tracia e della Frigia. La sua influenza in Grecia inizia nel VII secolo. Il dio ricongiunge gli uomini alla natura, li fa uscire dalla condizione umana. La sua furia orgiastica urtava con il senso greco della misura e dell’ordine. I Greci sono il popolo della swfrosuvnh, dell’autodominio. Ma questo è una conquista: è la “mente sana “ che assicura la prevalenza dello spirito, e alla vita istintiva conferisce forma, misura, bellezza. Dunque il ditirambo chiassoso e improvvisato si mutò nel canto artistico in onore del dio. Maschera e coturni, stivali a gambale.
Nelle Rane di Aristofane, Euripde rinfaccia a Eschilo la pomposità del suo linguaggio: di usare parole della grandezza del Licabetto (colle presso Atene) e del Parnaso. Allora il poeta più antico gli risponde: ti dico, disgraziato (kakovdaimon), che bisogna creare parole proporzionate ai concetti. Del resto è naturale che semidei usino parole più grandi delle usuali, infatti usano anche abiti molto più maestosi dei nostri (1060-1062). Dioniso incrementa e propaga la vita, Apollo le dà ordine.
In Iliade VI 132 troviamo che Dioniso è mainovmeno~. Non si tratta di pazzia patologica ma di una esaltazione che strappa gli uomini dal costume giornaliero. Il carisma della persona è la sua autonomia che lo differenzia dall’uomo gregge diffuso in Oriente. Solone esprime fiducia nell’ordine cosmico che è pure un ordine etico: al crimine segue la sventura, La polis corrisponde all’autonomia dei Greci. Nel 510 fu abbattuta la tirannide e stabilita l’isonomia, uguaglianza dei diritti per i cittadini. Da Clistene in avanti la polis presta un appoggio al cittadino e gli fornisce un contenuto di vita. L’operosità del singolo trae valore dal suo rapporto con la totalità del demos. Fino a Pisistrato, Atene soggiacque all’influsso ionico. Poi creò una cultura propria. Con il crollo della tirannide, fiorì la tragedia.
Quando il poeta parla al popolo e non al tiranno, il poeta diviene il maestro del popolo. Lo dice Eschilo nelle Rane: ai bambini è il maestro che fa scuola, agli adulti i poeti (1055)
Il tragediografo non deve dare voce ai propri sentimenti ma esprimere quanto commuove il suo popolo. La tragedia era ufficio sacro, parte del culto statale. Anche Pindaro si sentiva educatore. Pindaro però si rivolgeva solo ai nobili, il tragediografo a tutti
Frinico fece piangere gli Ateniesi con la Caduta di Mileto e gli fu inflitta una multa. Nelle Tesmoforiazuse, Agatone lo ricorda come un autore bello elegante e capace di creare drammi belli (164 ss)

Ifigenia in Aulide.
Fu rappresentata postuma con l’Alcmeone e le Baccanti. Il resoconto finale del messo non risale a Euripide. E’ un dramma psicologico dove Agamennone è il prototipo delle figure ondeggianti dei politici ateniesi che non avevano le attitudini dello statista. Caratteristica di questo duce è la debolezza. Vuole, disvuole, piange. L’eroe dell’Agamennone di Eschilo è diventato debole, vacillante e non eroico.
Nella tragedia di Eschilo, il coro cantava che Agamennone aveva dovuto entrare nel giogo della necessità (ajnavgka~ e[du levpadnon, Agamennone, 218) e procedeva con ferrea risolutezza verso il compimento del sacrificio.
In questa Ifigenia Euripide mostra la fiacchezza interiore dell’uomo, la debolezza, l’incertezza. Invece di un monologo che serva a chiarire a se stesso quello che vuole, Euripide lo fa dialogare con un servo per il quale oltretutto prova invidia.
Il padre di Ifigenia ha paura della massa che pretenderà il sacrificio.
La ragazza prima ha paura, poi diventa eroica. Euripide ammira l’idealismo della gioventù, in questa tragedia come nelle Fenicie (Meneceo) e negli Eraclidi (Macaria).
 “Questa mescolanza di debolezza e di forza, di timidezza e di eroismo è un ritratto vero e suggestivo della natura “, osserva Schiller nelle note alla sua traduzione.
Perrotta riporta questo giudizio di Schiller e aggiunge: “Questa bambinache concepisce la vita soltanto come una festa, si trova di fronte, all’improvviso, la morte… E alla morte sa andare, sì, ma come ad una festa: proprio come la vita era per lei soltanto una festa. Raccomanda alla madre: non ti tagliare i capelli, non portare il lutto per me…Alla madre raccomanda tenerissimamente il fratello: Fammi di Oreste un uomo “. Poi invita le verfini a cantare il peana di Artemide, a celebrare la sua morte col canto: la vista delle corone, delle bende, delle acque lustrali, e il canto l’inebbriano…Le parole di Schiller ben s’adatterebbero non alla sola Ifigenia ma a tutte le eroine euripidee. Polissena è in tutto simile a Ifigenia: piange anch’essa la giovinezza e le nozze perdute, come lei è timorosa ed ingenua, e fanciullescamente ricorda il tempo felice, quando la sua bellezza brillava tra le compagne, ed essa era “uguale in tutto agli dèi fuorché nella morte “ (p. 221) i[sh qeoi'si plh;n to; katqanei'n movnon (356)
 “Anche Polissena è tutta presa da una dolce esaltazione, e ricorda a sé stessa più di una volta di essere la figlia di Priamo, la sorella di Ettore…Dopo la sua coraggiosa decisione l’eroina torna a piangere la giovinezza e l’amore e non sa staccarsi dalle braccia di Ecuba; alla fine, prega Odisseo di condurla via, perché sente il suo cuore “struggersi al pianto della madre. La stessa debolezza è in Alcesti. I filistei, che contaminano con la loro ammirazione ogni cosa bella, non si stancano di celebrare in lei l’ideale delle spose e delle madri. Al cesti non incarna né questo né altro più o meno nobile ideale pratico; soltanto è una creatura d’ineffabile dolcezza “ Perrotta I tragici greci, Eschilo, Sofocle, Euripide, D’Anna, Messina-Firenze, 1971, p. 221). Perrotta poi ricorda la morte di Evade “che un furioso e amoroso dolore spingerà a uccidersi sul cadavere di Capaneo “ (nelle Supplici, 1045 sgg.). Dice al padre Ifi: “ come un uccello sulla roccia sul rogo di Capaneo alleggerisco l’infelice fardello (1045-1047). Il padre le chiede perché abbia messo in ordine il corpo con tanta cura (1054). Evade risponde che ha un abbigliamento confacente a qualche cosa di glorioso (1055), a un atto straordinario (1057). Dice che procede kallivniko “ (1059) verso una bella vittoria su tutte le donne illuminate dal sole. Si getterà sul rogo di Capaneo e arderanno insieme.
Torniamo a Perrotta: “Questa è la morte come la può concepire e volere una donna: la toilette di Alcesti prova ch’essa anche nella morte vuol essere bella “. (158 sgg. Si lavò, poi si adornò di vesti e gioielli quando capì che l’ultimo giorno era arrivato)
 “Poi l’eroina si getta sul letto nuziale, e donnescamente ricorda, sia pure con un’allusione pudica, le gioie d’amore. Nella sua anima non manca neppure una sfumatura di gelosia, e non so come facciano i critici a negarla: “Un’altra donna ti possederà, non più virtuosa, ma forse più fortunata “ (vv. 181-182 se; d’ a[llh ti “ gunh; kekthvsetai, -swvfrwn me;n oujk a]n ma'llon, eujtuch; “ d’ i[sw “, parodiato da Aristofane nei Cavalieri 1251-1252 quando Paflagone deve lasciare la corona al salsicciaio, non più ladro (klevpth “) ma forse più fortunato.
 “Ma che fa questa donna, non appena compare sulla scena? Invoca il sole, la patria, la casa natia. Poi fissa gli occhi lontano, come perduti in uno spettacolo invisibile: una barca, un lago “ (p. 222)
Quindi Perrotta cita i vv. 252- 256 nella traduzione di Racine (su; kateivrgei “ 256, ne me retard pas.
“Come Ifigenia, come Polissena, come Macaria, come tutte queste eroine euripidee, Al cesti
S’enivre des splendeurs de sa propre vertu
Si inebria dello splendore della propria virtù
“Euripide sapeva penetrare profondamente nelle anime di queste giovani donne, così eroiche e così fragili, che idoleggiava con la sua arte e amava col suo cuore “ (Perrotta, p. 223)

Achille è stato educato da Chirone, mentre Ifigenia non ha ricevuto alcuna educazione. Achille si innamora dell’anima eroica della fanciulla. Non c’è il motivo erotico presente in Racine. (Ifigenia, 1674). Ifigenia come Polissena sa consolare la madre e proibisce ogni lutto.
Agamennone è un ambizioso arrivista, Clitennestra è giustificata in anticipo di quanto farà. Già Meneceo nelle Fenicie si contrapponeva alle ambizioni degli adulti. Qui Ifigenia e Achille sono due giovani che guardano al proprio animo come stella polare. Rappresentano l’idealismo della gioventù.
Già in Erodoto, la guerra di Troia appariva come il primo scontro tra i Greci e i barbari. Poi le guerre persiane. Alla fine della sciagurata guerra fraterna tra Greci, i Persiani tornavano ad avere una parte preponderante e in entrambi i campi molti sentivano questo come un’onta nazionale. Lo stesso navarco spartano Callicratida sconfitto alle Arginuse nella tarda estate del 406 non aveva buoni rapporti con Ciro il Giovane che invece piaceva a Lisandro. Senofonte racconta che quando andò Callicratida da Ciro a chidergli del denaro per la paga dei marinai, il principe gli disse di aspettare due giorni. Allora il navarco indignato per il rinvio e adirato per l’anticamera (foithvsesin ojrgisqeiv~) disse che i Greci erano disgraziatissimi per il fatto di dover adulare i barbari e{neka ajrgurivou per denaro, e dichiarò che se fosse tornato sano e salvo in patria avrebbe fatto il possibile per conciliare Ateniesi e Spartani (Elleniche, I, 6-7)

Il sentimento panellenico auspicava l’unione contro il secolare nemico barbarico. Euripide dal 408 si trovava alla corte del re Macedone Archelao che ambiva ad essere greco. Ancora non c’era il progetto di Filippo e Alessandro, ma in meno di un secolo ci sarà la “crociata “ panellenica teorizzata da Isocrate e compiuta daAlessandro Magno contro l’impero persiano.
Alla fine delle Baccanti, Cadmo considera come terribile sciagura l’essere destinato a condurre contro l’Ellade un esercito barbarico.7


Gianni Ghiselli



[1] “Divinità primitiva e trina (triformis), essendo associata a divinità appartenenti ai tre regni: la luna (il cielo), Diana (la terra) e Proserpina (gli inferi) “. (G. G. Biondi, op. cit., p. 91, n. 5.)
[2] Vissuto ad Ascra in Beozia tra l'VIII e il VII secolo. Ci sono giunti due poemi sicuramente esiodèi in esametri: Teogonia, Opere e giorni.
[3]J. P. Vernant, Tra mito e politica, p. 136.
[4] Il soggetto è quisquis (607) che poi exitu diro piavit (615)
[5] Pelia
[6] Il vello d'oro naturalmente.
[7] Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est “, 2, 4,, quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[8] G. G. Biondi, Seneca Medea Fedra, p. 165.
[9] Databile tra il 463 e il 461,
[10] Cfr. sublatis cornibus Io…iam saetis obsĭta, iam bos (Eneide, VII; 789-790), con alte le corna Io, già coperta di peli, già vacca. Si tratta di un’immagine che orna lo scudo d’oro di Turno.
[11] Questo è il segno dei supplici anche nell’incipit dell’Edipo re che comincia con queste parole del figlio di Laio: “ O figli, nuova stirpe dell'antico Cadmo/quali seggi mai sono questi dove state seduti/con i supplici rami incoronati? “ (vv. 1-3).
[12] Le Supplici di Euripide (del 422) contengono una parte politica più ampia in difesa della democrazia e delle leggi scritte.
[13] Cfr. parrhsiva
[14] Si pensi alla chiacchiera di tanti dei politici attuali vaghi di ciance e privi di idèe
[15] Servirebbe anche oggi, 25 aprile 2015.
[16] Grazie alla parrhsiva, la libertà di parola. Tsipras e il suo ministro Varoufakis, eletti dal popolo, per ora non hanno piegato la testa come fanno i nostri cooptati dai vertici della finanza. Varoufakis per questo si è preso del dilettante.
[17] “Nell’ordine dei valori morali proposti dalla società greca arcaica e classica l’onore reso ai genitori viene subito dopo quello prestato agli dèi: ved. p. es. Pindaro, Pyth. 6-26-7 (Chitone diede ad Achille il precetto di venerare il Cronide senza privare mai di questo onore i genitori-e scolio ad. loc.); Euripide, Tr. GF V, fr. 853 Kannicht; Senofonte, Mem. IV 4, 19. Le colpe contro i genitori nella mentalità religiosa del tempo erano considerate inespiabili anche dopo la morte: Eschilo, Eum. 721; Platone, Phd. 114 a, Resp. 615 c(….) Invece, nel comico “mondo alla rovescia “ degli uccelli, battere il padre è considerato un atto onorevole (p. es. Aristofane, Au. 755-9) “
Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 356 e p. 357.
[18] Nel romanzo 1984 di Orwell, c’è una ragazza, Jiulia, che si ribella al dispotismo facendo l'amore con gioia, poi spiega: ""Quando fai all'amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo... Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate? " (p. 142). Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà" (p. 133).
Il protagonista del romanzo vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito... un atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei stata e più ti voglio bene. Hai capito? " (p. 134).

1 commento:

  1. Quante madri,come la Medea ,attualmente sacrificano la prole al solo fine di ledere il maschio traditore! Veramente la tragedia greca è, e sarà , sempre attuale perchè parla di noi.Anzi,ci spiega i nostri sentimenti. Giovanna Tocco

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