sabato 13 giugno 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte X

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Filarco viene criticato dal pragmatico Polibio per la presenza di gesti patetici nelle sue Storie tragiche. L’eccidio di Mantinea (223 a. C.). Le torture degli iraqeni. Giuliano Ferrara e Marco Travaglio Le Baccanti di Euripide e le Deux femmes courant sur la plage di Picasso. La storiografia drammatica è mal reputata. La teatralità di Demetrio Poliorcete, quella di Antonio e quella di Cleopatra. La maschera tragica e la maschera comica di Antonio (Plutarco)

L'immagine topica dei capelli sciolti e quella dei seni scoperti per suscitare compassione è fortemente biasimata da Polibio, lo storico antitragico il quale è critico nei confronti dei colleghi storiografi che danno spazio alle lacrime nelle loro opere per suscitare la partecipazione sentimentale di chi le legge. Il suo obiettivo polemico è soprattutto Filarco[1] considerato uno storico "tragico" poiché ha cercato di colpire la sfera emotiva dei lettori, adoperandosi per invitarli alla compassione e renderli partecipi dei suoi sentimenti riguardo a quanto viene raccontato. Egli dunque introduce abbracci di donne (periploka;" gunaikw'n) e chiome scarmigliate (kovma" dierrimmevna") e denudamenti di seni (mastw'n ejkbolav"), e, oltre questo, lacrime e lamenti di uomini e donne (davkrua kai; qrhvnou" ajndrw'n kai; gunaikw'n) trascinati via alla rinfusa con figli e vecchi genitori"[2]. Ci fu per esempio l'eccidio di Mantinea. Durante la guerra cleomenica, la città fu conquistata dai Macedoni alleati degli Achei, nel 223: secondo Filarco e Plutarco (Vita di Arato 45, 6 - 9) la città subì un massacro che Polibio tende a nascondere o minimizzare. Lo storico di Megalopoli si limita a dire (II 54) che Antigono Dosone, dopo essere stato nominato capo delle forze alleate della lega ellenica costituitasi contro Sparta e gli Etoli, riuscì a sottomettere prima Tegea poi Mantinea, che nel 229 erano state prese da Cleomene.
Filarco viene biasimato per avere "faziosamente" descritto le sofferenze di questa gente.
Una critica del genere viene fatta da alcuni personaggi della nostra televisione a chi racconta gli orrori della guerra in Iraq: per esempio “Giuliano Ferrara che di fronte alle prove fotografiche della tortura fornite dalle stesse autorità americane, sproloquia di “episodi circoscritti” (almeno venticinque prigionieri morti per le sevizie dei militari Usa!) , del virus che “ci indebolisce nella guerra”: non la tortura, beninteso, ma “la voracità morbosa di dire che è colpa dell’Occidente, di pubblicare immagini delle torture degli occidentali”. Cioè quel poco di spirito autocritico rimasto nelle opinioni pubbliche democratiche”[3].

Per quanto riguarda gli abbracci di donne nella tragedia, vediamo le Troiane di Euripide, per esempio, dove Andromaca abbraccia il figlio che a sua volta si rifugia tra le ali della mamma come un uccellino: "neosso;" wJsei; ptevruga" ejspivtnwn ejmav"", v. 751.
Per le chiome scarmigliate, o scagliate[4] c'è il ricordo delle Baccanti: "truferovn te plovkamon eij" aijqevra rJivptwn" (v. 150) scagliando nell'aria i riccioli molli, un ricordo che ho ravvisato anche in un quadro di Picasso del 1922 Deux femmes courant sur la plage (Parigi, museo Picasso).
Per quanto riguarda il rapporto tra storiografia e dramma, riferisco alcune parole di Mazzarino: "nell'età ellenistico - romana, concetti di "teatralità" o simili, formulati a proposito di opere di storia, implicavano per lo più un giudizio critico negativo su quelle opere, in due sensi; si impugnava la validità di racconti storici, i quali applicassero forme letterarie proprie della tragedia, atte a sollecitare commozione nei lettori, e comunque tali da togliere veridicità al racconto; e in genere si negava "verità" a racconti storici i quali (sotto qualunque forma letteraria, ricercata od invece semplicissima e primitiva) avessero un contenuto di favole largamente irrazionale". Vengono fatti alcuni esempi in seguito ai quali Mazzarino conclude che "generalmente. . . il richiamo al motivo "spettacolare" nell'opera storica indica un giudizio del tutto negativo. "[5].
Del resto atteggiamenti teatrali vengono presi dagli stessi personaggi di cui ci parlano le opere storiche: Plutarco racconta che in Demetrio Poliorcete c’era davvero una grande teatralità (tragw/diva megavlh) quando si avvolgeva nella porpora ornata d’oro e teneva in testa il cappello a larghe tese con doppia mitra (Vita di Demetrio, 41, 6).
Nella Vita di Antonio, accoppiata con quella di Demetrio, Plutarco cita due versi dell’Edipo re (il quarto leggermente modificato e il quinto senza ritocchi) per significare la dissolutezza pestifera di Antonio: quando il triumviro si recò in Oriente, l’Asia intera, come quella famosa città di Sofocle (Tebe) era piena di fumi di incenso, e insieme di peani e di gemiti (24, 3).
Subito dopo Plutarco racconta che Antonio entrò in Efeso preceduto da donne vestite come le Baccanti e da uomini e fanciulli abbigliati da Satiri e da Pan; la città era piena di edera, tirsi, zampogne e flauti e la gente acclamava Antonio come Dioniso che dà gioia e amabile. Per alcuni sarà stato tale, ma per i più era
j Wmhsth;~ kai; jAgriwvnio~ (24, 4 - 5) , Dioniso Crudivoro e Selvaggio.
Quando Cleopatra si recò da lui risalendo il fiume Cidno, con teatralità ancora più vistosa[6], si diffuse dappertutto la voce che Afrodite con il suo corteo andava da Dioniso per il bene dell’Asia (wJ~ hJ jAfrodivth kwmavzoi pro;~ to;n Diovnuson ejp j ajgaqw`/ th`~ jAsiva~, 26, 5) . Quindi Plutarco racconta alcune buffonate che i due amanti compivano divertendo gli Alessandrini i quali dicevano che Antonio con i Romani usava la maschera tragica e con loro quella comica (levgonte~ wJ~ tw`/ tragikw`/ pro;~ tou;~ JRomaivou~ crh`tai proswvpw/, tw`/ de; kwmikw/` pro;~ aujtouv~, 29, 4)


Il seno mostrato al proprio figliolo. Ecuba a Ettore nell’Iliade. Clitennestra a Oreste nelle Coefore

Ecuba nell'Iliade mostra il seno a Ettore per indurlo a non affrontare Achille: la vecchia regina, aperta la veste, con una mano solleva il seno, e prega il figlio di ricordare che gli aveva dato la mammella che fa scordare le pene: "ei[ potev toi laqikhdeva[7] mazo;n ejpevscon: - tw'n mnh'sai" (XXII, vv. 83 - 84) [8].
Il denudamento del seno viene attribuito da Eschilo al personaggio di Clitennestra che mostra il petto a Oreste per indurlo a compassione: " ejpivsce", w\ pai', tovnde d j ai[desai, tevknon, - mastovn" (Coefore, vv. 896 - 897), fermati, figlio, abbi rispetto di questo seno, creatura.
14. 5. Il bacio al letto di morte (Alcesti, Deianira e Didone) e a quello della stanza della vergine (Medea nelle Argonautiche).
Un altro topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, è il bacio della donna al letto[9], anzi al letto della propria morte per amore. Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo riempie tutto del torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion - ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183 - 184.) . Un gesto ripetuto da Didone la quale muore imprimendo la bocca sul letto (os impressa toro, Eneide, IV, 659,).
“La donna che si getta sul letto coniugale, che invoca le dulces exuviae e bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal ricordo delle dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i vividi riflessi di Deianira) [10]. Nelle Trachinie di Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto: “w\ levch te kai; numfei' j ejmav, - to; loipo;n h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote –devxesq j e[t j ejn koivtaisi tai'sd j eujnhvtrian” (vv. 920 - 922), o letto mio e stanza nuziale, addio per sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come sposa nel vostro giaciglio.
 La Medea di Apollonio Rodio invece bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine.
14. 6. L’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo dei morti: Odisseo e la madre Anticlea; Orfeo e Euridice nella quarta Georgica; Enea e la moglie Creusa; Enea e il padre Anchise nell’Eneide; Orfeo e la delicatezza di Euridice nelle Metamorfosi di Ovidio. Dante e Casella.
Topos gestuale dei morti, o riservato ai morti, è l’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo infero: Odisseo racconta che si lanciò tre volte (tri;~ me;n ejformhvqhn) , spinto dallo qumov~, ad abbracciare la madre evocata dall’Ade, ma ella, skih'/ ei[kelon h] kai; ojneivrw/ - e[ptat j (Odissea, 11, 206 - 208) simile all’ombra o anche al sogno, volò via. Tuttavia Anticlea ha la possibilità di rispondere al figlio desolato che la invoca, di salutarlo e benedirlo.

Più spietato è il mondo dei morti[11] che rinchiude Euridice: ella non può rispondere nemmeno con le parole al vano tentativo compiuto da Orfeo di abbracciarla: “Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras/commixtus tenuis, fugit diversa neque illum/prensantem nequiquam umbras et multa volentem/dicere praeterea vidit; nec portitor Orci/amplius obiectam passus transire paludem” (Georgica IV, 499 - 503), disse, e dagli occhi all’improvviso, come fumo confuso in arie impalpabili, fuggì all’indietro né vide lui che cercava di afferrare invano gli aspetti dell’ombra e molte parole ancora voleva dire; né il traghettatore dell’Orco permise che attraversasse più l’interposta palude.
Il topos dell’abbraccio negato si ripresenta nell’Eneide, due volte. La prima si trova alla fine del secondo canto che racconta la caduta di Troia. Il mesto fantasma, l’ombra della donna Creusa (infelix simulacrum atque ipsius umbra Creūsae, II, 772) sparita, appare a Enea che la cercava, e lo invita a partire, seguendo il suo destino di successi con una nuova sposa, regale. Lei, la madre di Ascanio, rimarrà sulle coste troiane trattenuta da Cibele, la magna deum genetrix (v. 788). Ebbene, dette queste parole la donna sparì: “haec ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem/dicere deseruit tenuisque recessit in auras. ” (II, 790 - 791). Come ebbe detto queste parole, mi lasciò che piangevo e volevo dire molte parole, e scomparve nelle arie impalpabili. Allora Enea fece il tentativo topicamente vano: “Ter conatus ibi collo dare bracchia circum;/ter frustra comprensa manus effugit imago, /par levibus ventis volucrique simillima somno”. (vv. 792 - 794), tre volte in quel punto tentai di stringerle al collo le braccia; tre volte l’immagine invano afferrata sfuggì alle mani, uguale ai venti leggeri e del tutto simile al sogno fugace. Gli stessi versi sono ripetuti nel sesto canto (v. 700 - 702), a proposito dell’abbraccio di Anchise, invano desiderato e richiesto tra le lacrime: “ ‘Da iungere dextram, / da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro’. / Sic memorans largo fletu simul ora rigabat” (Eneide, 6, vv. 697 - 699, dammi la destra da stringere, dammela, padre, e non sottrarti al nostro abbraccio. Così ricordando, nello stesso tempo rigava il volto con pianto copioso.
Poi ci sono l’Orfeo e l’Euridice delle Metamorfosi di Ovidio. In questo poema il cantore trace volse indietro lo sguardo innamorato, per brama di vederla e per paura che lei si perdesse (ne deficeret metuens avidusque videndi 10, 53) nel sentiero che avevano preso in salita, in silenzi privi di parola, scosceso, oscuro, denso di nebbia fitta (“Carpitur adclivis per muta silentia trames/arduus, obscurus, caligine densus opaca”, vv. 53 - 54) .
Leggiamo i versi che descrivono la situaziono topica, ma vengono rinnovati dalla delicatezza di Euridice la quale non si lamenta poiché un’amante non può lamentarsi di essere amata: “flexit amans oculos: et protinus illa relapsa est/bracchiaque intendens prendique et prendere certans/nil nisi cedentes infelix adripit auras. /Iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam/questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?) /supremumque “vale”, quod iam vix auribus ille/acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est” (X, vv. 56 - 63), girò indietro gli occhi l’amante: e subito lei cadde, e sebbene lui tendesse le braccia lottando per essere preso e prendere, nulla afferrò l’infelice se non soffi fugaci. E lei mentre già moriva per la seconda volta non emise un lamento sul coniuge suo[12] (di che cosa infatti si sarebbe lamentata se non di essere amata?) e gli disse l’ultimo “addio” che oramai quello appena prendeva nelle orecchie, poi cadde di nuovo nel luogo di prima.
Torneremo sulla delicatezza di Ovidio in un capitolo successivo (62).
Infine Dante che tenta di abbracciare Casella sulla spiaggia del Purgatorio: “Ohi ombre vane, fuor che nell’aspetto!/Tre volte dietro a lei le mani avvinsi, /e tante mi tornai con esse al petto” (Purgatorio, II, 79 - 81) .


Salvatore Settis: i tovpoi gestuali si presentano e si trasmettono anche nelle arti figurative le quali riprendono periodicamente gli elementi lessicali tratti dall'arte classica. Nicola Pisano, Giotto e Raffaello

"Rinascevano in tal modo formule espressive che erano morte da secoli, come il gesto della disperazione, con ambo le braccia gettate violentemente all'indietro, che Nicola Pisano (c. 1265) prelevò dalla Morte di Meleagro di un sarcofago romano riusato a Firenze, riusandolo per la figura di una madre piangente nella Strage degli Innocenti del pergamo di Siena. Lo stesso gesto fu riadoperato da Giotto per il suo desolatissimo San Giovanni nella Deposizione della Cappella degli Scrovegni (c. 1305), e di qui si diffuse poi ampiamente, tornando in circolazione nel repertorio di bottega dopo dieci secoli di oblio.
Analogamente Raffaello, nella sua Deposizione (1507), tolse da un altro sarcofago di Meleagro (riusato per un sepolcro in una chiesa di Roma) due formule gestuali, rimettendone in vigore con suprema efficacia il potere espressivo: il braccio esanime del Cristo defunto, abbandonato nell'impotenza della morte, e il tenero gesto pietoso della Maddalena che tiene nelle proprie mani la mano di Gesù. In questi e in mille altri casi, è come se fosse maturato nella coscienza degli artisti il senso dell'insufficienza del proprio repertorio, e insieme della qualità e dell'efficacia di quello antico; o come se il radicale ampliamento che s'andava dispiegando delle possibilità espressive dell'arte, ma anche dei suoi temi (con l'aggiungervi, per esempio, storie di eroi e miti "classici"), spingesse ad allargare il lessico d'uso"[13].
15. Il lavoro sui topoi è sempre “in progresso”.
Un ottimo esercizio sarà individuare alcuni tovpoi in un autore e arricchirli attraverso la lettura di diversi testi del medesimo autore e di altri.
 In fondo Internet, in quanto rete gigantesca di luoghi e siti, costituisce un nuovo aspetto della topica antica.


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[1] nato a Naucrati ma vissuto ad Atene, nel III secoloa. C., autore di Storie in 28 libri che andavano dal 272 al 219, anno della morte di Cleomene III, il re di Sparta ben visto da questo autore e mal visto da Polibio il quale dichiara di seguire le Memorie di Arato, stratego della lega Achea, per la narrazione della guerra cleomenica che oppose Sparta ed Etoli ad Achei e Macedoni.
Filarco, ci informa Mazzarino, "ha capito il genio di Cleomene III e la necessità della rivolta sociale, in mezzo al tramonto della gloriosa libertà greca. Michele Rostozev (Die hellenistische Welt, trad. ted. , I, 146) ha detto benissimo: "la Grecia era dalla parte di Filarco, e non da quella di Arato e degli Achei difesi da Polibio" (Il Pensiero Storico Classico, II, 1, p. 126) . Arato potenziò la lega achea, operò e scrisse in favore degli abbienti, mentre Filarco era favorevole a Cleomene III di Sparta. Questo re riformatore fu sconfitto a Sellasia, nel 222, da Antigono Dosone di Macedonia e dallo stratego acheo Filopemene, e per tale ragione gli scrittori suoi partigiani possono essere accusati di menzogna dallo storico partigiano dei vincitori nei quali si è incarnata la verità.
[2] Polibio, Storie, II, 56, 7.
[3] M. Travaglio, La scomparsa dei fatti, p. 124.
[4] dierrimmevna" è participio perfetto medio passivo di diarrivptw, scaglio.
[5] Il Pensiero Storico Classico, I vol. , p. 181.
[6] Ella risaliva il fiume su un battello dalla poppa d’oro, con le vele di porpora spiegate, mentre i rematori remavano con remi d’argento al suono del flauto accompagnato da zampogne e cetre. La regina stava sdraiata sotto un padiglione ricamato d’oro, ornata come Afrodite, con ragazzi simili ad amorini che le facevano vento e le ancelle più belle, abbigliate da Nereidi e Grazie, stavano al timone e alle funi. Meravigliosi profumi provenienti da aromi bruciati invadevano le sponde (Plutarco, Vita di Antonio, 26, 1 - 3). Lo ricorda Shakespeare che leggeva Plutarco nella traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella francese (del 1559) del vescovo Amyot che tradusse pure i Moralia (1572) [6]. The barge she sat in, like a burnish’ d throne/Burn’d on the water: the poop was beaten gold;/Purple the sails, and so perfumed that/ The winds were love - sick with them; the oars were silver, /Which to the tune of the flutes kept stroke…” (Antonio e Cleopatra, III, 2), la barca dove sedeva, come un trono brunito, splendeva sull’acqua: la poppa era di oro battuto; di porpora le vele, e così profumate che i venti languivano d’amore per esse; i remi erano d’argento, e tenevano il tempo al suono dei flauti.
[7] Alceo attribuisce al vino (oi\nonlaqikavdea, fr. 96 D., v. 3) questo aggettivo formato dalanqavnw e kh̃do~.
[8] “Sulla terra sono molte buone invenzioni, le une utili, le altre gradevoli: per esse la terra è amabile. E certe cose vi sono così bene inventate, da essere come il seno della donna: utili e al tempo stesso gradevoli” F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 252.
[9] "Nella casa di Alcesti e di Admeto, come nel loro dramma, è il letto il mobile più importante", J. Kott, Mangiare Dio, p. 120.
[10] A. La Penna, Prima lezione di letteratura latina, p. 155.
[11] Sentiamo qualche testimonianza sulla spietatezza attribuita ai morti e la spiegazione che ne dà Freud.
Sempre nella Georgica IV, Orfeo, preso da improvvisa pazzia (subita… dementia, v. 488) si era voltato per guardarla, rompendo i patti del crudele tiranno (immitis rupta tyranni/foedera, vv. 492 - 493), ossia di Plutone. Ebbene tale dementia sarebbe stata da perdonare se i Mani sapessero perdonare: “ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes” (v. 489). Nell’Edipo re i morti non ricevono e non sentono compassione: “"E la città muore senza tenere più conto di questi/e progenie prive di pietà giacciono a terra portatrici di morte senza compassione" (vv. 179 - 181) . Probabilmente i morti ci danno sensi di colpa. Nell’Eneide Ilioneo, scampato al naufragio, chiedendo la compassione di Didone, che la concederà, le dice di essere uno dei compagni di Enea, re giusto e valoroso, e di non sapere se l’eroe troiano si nutra ancora del soffio dell’etere o se sia giaccia crudelibus…umbris (I, 547), tra gli spettri crudeli.
Come si spiega questa spietatezza attribuita ai morti? Lo chiarisce Freud in un capitolo di Totem e tabù (del 1913) intitolato “Il tabù dei morti”. L’autore ricorda alcuni studiosi unanimi nell’attribuire ai selvaggi la credenza dell’ostilità dei morti: “La premessa che sta alla base di questa teoria, è che il membro della famiglia che si è amato, al momento stesso della morte, si trasforma in un demone dal quale i congiunti che gli sono sopravvissuti non possono aspettarsi altro che ostilità e dai cui intenti malvagi devono in tutti i modi guardarsi. Tale concetto è così singolare e sconcertante, che da principio si è portati a non prestarvi fede. Tuttavia quasi tutti i più eminenti studiosi sono unanimi nell’attribuire ai selvaggi questa credenza” (Totem e tabù, p. 87). Riferisco solo uno degli studiosi citati da Freud: “Supporre che i defunti più cari si trasformino dopo la morte in demoni pone ovviamente un ulteriore interrogativo. Quali furono le ragioni che indussero i popoli primitivi ad attribuire ai loro morti più cari un così profondo mutamento di sentimenti? Perché li trasformano in demoni? Westermarck ritiene che la risposta a tali domande sia facile: “Poiché nella maggior parte dei casi la morte è considerata come il peggiore dei mali, si pensa che i trapassati debbano essere profondamente infelici per la sorte che è loro toccata. Secondo la concezione dei popoli primitivi, la morte è sempre violenta, sia per mano altrui, sia ottenuta per magia, e già questo basta a far immaginare l’anima del trapassato come carica di rabbia e desiderosa di vendetta. Presumibilmente essa invidia coloro che sono ancora in vita e ha grande nostalgia della compagnia dei suoi cari di un tempo - è quindi comprensibile ch’essa miri a ucciderli con le malattie, per potersi riunire a loro…Un’ulteriore spiegazione della malvagità che si attribuisce alle anime dei morti la si deve ricercare nella istintiva paura che essi ispirano, la quale è a sua volta il risultato dell’angoscia che si prova di fronte alla morte” (E. Westerrmarck, The Origin and Development of the Moral Ideas, p. 426.) . Quindi Freud torna a scrivere in prima persona: “Quando la morte strappa il marito a una donna, o la madre a una figlia, non di rado accade che la persona sopravvissuta sia sopraffatta da dubbi tormentosi, che noi usiamo chiamare “rimproveri ossessivi”, e si domandi se non sia colpevole, per negligenza o imprudenza, della morte della persona cara…L’esame psicoanalitico dei casi ci ha insegnato a scoprire le molle segrete di questa sofferenza. Abbiamo potuto constatare che i rimproveri ossessivi sono, in certa misura, giustificati e soltanto perciò resistono a tutte le obiezioni e le confutazioni. Ciò non significa ovviamente che la persona in lutto sia realmente colpevole della morte della persona cara o davvero abbia commesso quelle negligenze o trascuratezze, come il rimprovero ossessivo afferma: vi era comunque in lei qualcosa, un desiderio inconscio che non si opponeva a quella morte…Tale ostilità, presente nell’inconscio, ma celata dietro un caldo sentimento di amore, si trova in quasi tutti i casi di intenso legame affettivo con una determinata persona, e rappresenta il caso classico, il modello dell’ambivalenza delle emozioni dell’uomo…Il processo si chiude per mezzo di un particolare meccanismo che in psicoanalisi si usa chiamare proiezione. L’ostilità…viene proiettata sul mondo esterno, quindi staccata dalla propria persona per essere attribuita all’altra. Non siamo più noi, i vivi, a essere contenti di esserci sbarazzati del defunto; no, al contrario, noi piangiamo la sua perdita, ma il defunto è intanto stranamente diventato un demone cattivo che gioirebbe della nostra infelicità e che è pronto a portarci la morte. I supersiti devono quindi difendersi da questo nemico malvagio; in questo modo si sono liberati da un’oppressione interiore, soltanto per scambiarla con un’angoscia che viene dall’esterno” (Totem e tabù, pp. 90 - 91 e p. 94).
[12] Si pensi alla moglie della satira sesta di Giovenale: quando si trova sulla nave dove l’ha fatta salire il marito, gli vomita addosso, se invece segue l’amante, sta bene di stomaco, pranza in mezzo ai marinai, passeggia per la poppa e gode nel maneggiare le dure funi: “quae moechum sequitur, stomacho valet; illa maritum/convomit; haec inter nautas et prandet et errat/per puppem et duros gaudet tractare rudentis” (vv. 100 - 102)

[13] Salvatore Settis, Futuro del 'classico', p. 56. 

1 commento:

  1. L'immagine più diffusa della Madonna è quella in cui porge il seno a Gesù Bambino. Giovanna Tocco

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