lunedì 20 giugno 2016

Alcesti. I parte

Addio di Alcesti
340 a.C. circa

12 giugno 2016
Dopo la rappresentazione nel teatro di Siracusa.

Funerale anticipato con un lungo corteo e una croce cristiana.
Un grande velo nero ricopre il coro.
Nel prologo recitato da Apollo e Thanatos, la Morte rinfaccia ad Apollo "Stabilisci la legge, o Febo, per gli abbienti" (pro; ~ tw`n ejcovntwn, Foi`be, ton novmon tivqh", v. 57). Ebbene questo verso ideologico è stato saltato. Altri versi nodali spariti sono quelli che sconsigliano le nozze: il Coro formato da vecchi di Fere, amici del re, conclude il primo stasimo cantando: “ou[pote fhvsw gavmon eujfraivnein - plevon h] lupei'n, toi'" te pavroiqen - tevkmairovmeno" kai; tavsde tuvca" - leuvsswn basilevw", o}sti" ajrivsth" - ajplakw; n ajlovcou th'sd j, ajbivwton - to; n e[peita crovnon bioteuvsei”, (vv. 238 - 242), non dirò mai che le nozze portino gioia più che dolore, argomentandolo dai fatti passati e vedendo questa sorte del re, il quale, persa l'ottima sposa, vivrà in futuro una vita non vita.

Buona la trovata della musichetta allegra suonata all’arrivo di Eracle e ripetuta alla fine. Dopo la resurrezione di Alcesti, Eracle raccoglie la croce e la butta sul feretro vuoto. I due sposi si allontanano mano nella mano.
 La traduzione è nel complesso accettabile, ma, oltre le omissioni di cui sopra, sono da biasimare alcune banalizzazioni come p. e, l’aggettivo ajpovtomo" (“scosceso”, v. 118) riferito a movro" (“parte, destino, morte”) tradotto con “terribile”. Nell’insieme lo spettacolo è buono.
Ottima la recitazione di Graziosi nella parte pur secondaria di Ferete. Buffo e divertente Eracle (Santospago) con il suo epicureismo ante Epicurum

Alcesti di Euripide
Tragedia rappresentata per la prima volta nel 438. Il significato di fondo del dramma credo sia contenuto nei versi con i quali Admeto riconosce il suo sbaglio.
 Alla resipiscenza segue un lieto fine.
Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro; n diavxw bivoton: a[rti manqavnw" (v. 940), condurrò una vita penosa: ora comprendo In seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.

 C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico. E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie per un presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla reputazione: " ejgwv ti" ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn" (v. 588), io uno senza peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko; " ajtuvchma", un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana.

L’Alcesti è una delle non poche tragedie greche stroncate da Schopenhauer:
 “Le Baccanti di Euripide sono un indegno pasticcio in onore dei sacerdoti pagani. Molti drammi antichi non hanno alcuna tendenza tragica; come l'Alcesti e l'Ifigenia fra i Tauri di Euripide; alcuni hanno motivi repellenti, o perfino nauseanti; come l'Antigone ed il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto l'orribile dominio del caso e dell'errore, ma senza la rassegnazione da ciò provocata e di ciò redentrice. Tutto questo perché gli antichi non erano giunti ancora al sommo ed al fine della tragedia, anzi della concezione dell vita in generale…Quindi l’esortazione alla rinunzia della volontà alla vita rimane la vera tendenza della tragedia".
La tragedia classica in effetti non è “solo rappresentazione di eventi terribili (deinav). Euripide, in particolare, è autore di tragedie a lieto fine che per la loro peculiare natura hanno imbarazzato, sin dall’antichità, numerosi critici. Una delle hypotheseis all’Alcesti giudica il dramma “vicino ai modi del dramma satiresco” (saturikwvteron); e tragedie come lo Ione, l’Ifigenia Taurica e l’Elena sono state variamente definite dagli studiosi moderni “tragicommedie” o “melodrammi”.

Il letto, vedremo è il mobile più importante della casa nell'Alcesti di Euripide (vv. 177 e sgg.), e nella Medea è un nodo di affetti così sacro e forte che, se l’uomo unilateralmente lo scioglie o lo taglia, rende la donna feroce (vv. 265 - 266).
Da Alcesti morta, come da Edipo a Colono, dovrebbe spirare il bene: il coro nel terzo stasimo formula questa preghiera che verrà ripetuta dai passanti, sull’obliquo sentiero accanto alla tomba: “Au[ta pote; prouvqan j ajndrov~, - nu'n dj e[sti mavkaira daivmwn: - cai'r j w\ povtni j eu\ de doivh~. - toi'aiv nin prosrou'si fh'mai” ( Alcesti, vv. 1002 - 1005), questa una volta morì per il marito, ora è una divintà beata: salve, signora, dacci del bene. Tali parole le diranno.
Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh viene apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le Muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn), /ma non ho trovato niente più forte/della Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde; n jAnavgka" - hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie" (vv. 962 - 972).
Da questi versi si vede che la Necessità è più forte del lovgo", della poesia, dell'arte medica.
E ancora: la Necessità non è meno forte di Zeus: “kai; ga; r Zeu; ~ o{ti neuvsh/ - su; n soi; tou'to teleuta'/” (Alcesti, 978 - 979), e infatti qualunque cosa Zeus approvi, con te lo porta a compimento, le dice il coro dei vecchi di Fere.
Nella Prefazione al romanzo Notre - Dame de Paris, Victor Hugo scrive che “rovistando all’interno di Notre - Dame…trovò in un recesso oscuro di una delle torri, questa parola incisa a mano sul muro:
 ANAGKH
Ebbene, conclude la prefazione: “Proprio su quella parola si è fatto questo libro.
Marzo 1831”.

Alcuni versi prima del terzo stasimo, nel terzo episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch: “non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/)” (Alcesti, vv. 785 - 786)
Prometeo sopporta di sapere il suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero capaci di reggere una simile tensione (v. 514) e infonde negli uomini cieche speranze. Egli infatti sa pene che le tevcnai da lui scoperte non possono nulla contro la necessità “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ”, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Cfr. a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni arte, necessitas non usitata modo praesidia, sed quaedam etiam nova adnovit” ( Historiae Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità più potente di ogni tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi. Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C.
Avanzando nella Sogdiana Al. si trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in adversis necessitas quam ratio, frigoris remedium invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante rationem est).

L’ambiguità non riguarda soltanto il linguaggio sofocleo.
Anche una situazione, o un intero dramma possono essere ambigui: “La puoi dire viva e che è morta anche”.
L’ambiguità è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano la resurrezione.
Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure il suo significato, la sua sostanza, possono essere ambigui…Ambiguo in maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un vero tappeto, tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma nello stesso tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso di Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”.
Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un serrato dialogo con la donna)”.

Sofocle considera i legami di sangue più forti di quelli affettivi. Diversa è la posizione di Euripide il quale nell'Oreste fa dire al protagonista, in lode dell'amicizia di Pilade: "acquistate amici, non solo parenti: /poiché chiunque collimi nel carattere, pur essendo un estraneo, /è un amico più caro ad aversi di mille consanguinei (murivwn kreivsswn oJmaivmwn ajndri; kekth`sqai fivlo~)" (vv. 804 - 806). Si può pensare che già nell'Alcesti il drammaturgo più giovane rappresenta una sposa la quale sacrifica per il marito la propria vita dopo che il padre e la madre di lui si erano rifiutati di donargli la loro.
Plutarco nella Vita di Solone racconta che il legislatore ateniese permise a chi non aveva figli di lasciare in eredità i propri beni anche fuori dalla famiglia in quanto “filivan te suggeneiva~ ejtivmhse ma`llon kai; cavrin ajnavgkh~” (21, 3), valutò l’amicizia più della parentela e l’affetto più della necessità.
Con Euripide, il primo letterato puro, comincia il distacco dalla storia e dalla politica. Eppure a volte si trovano forme di eroismo, quali il sacrificio alla patria o alla famiglia, di una giovane vita come quella di Ifigenia, o di Alcesti, o di Polissena, o di Macaria la figlia di Eracle negli Eraclidi, o di Meneceo, figlio di Creonte nelle Fenicie. Giovani che muoiono a[wroi, ante diem e muovono la commozione di Euripide, come poi quella di Virgilio. Si tratta di eroismi improvvisi, fondati non su abitudine morale ma su entusiasmi e slanci che magari succedono alla paura, come nel caso di Ifigenia, o allo scetticismo. Aristotele infatti, si ricorderà, trova il difetto di una scarsa coerenza nella protagonista dell’ l'Ifigenia in Aulide (Poetica 1454a, 31).
Euripide discute molto sul matrimonio ( Medea, Alcesti) e più in generale sulla relazione tra i sessi che, come ogni cosa nella natura, è fatto anche di lotta. Nei rapporti umani, non tanto diversamente da Tucidide, vede divulgarsi il diritto del più forte, anche se non gli piace. La Medea drammatizza il conflitto tra lo sconfinato egoismo dell'uomo e l' immensa passione della donna.
Un topos gestuale, tra l’erotico e il disperato, è il bacio della donna al letto, anzi al letto della propria morte per amore.
Alcesti poco prima di morire vi si getta sopra, lo bacia e lo bagna tutto con il torrente di lacrime che le sgorga dagli occhi (kunei' de; prospivtnousa, pa'n de; devmnion - ofqalmotevgktw/ deuvetai plhmmurivdi, Alcesti, vv. 183 - 184.).
Un gesto ripetuto da Didone la quale muore imprimendo la bocca sul letto (os impressa toro, Eneide, IV, 659,).
“La donna che si getta sul letto coniugale, che invoca le dulces exuviae e bacia il letto, è la donna innamorata che non può liberarsi dal ricordo delle dolcezze del suo amore (sono note le ascendenze sofoclee, cioè i vividi riflessi di Deianira)”.
Nelle Trachinie di Sofocle le ultime parole di Deianira sono rivolte al letto: “w\ levch te kai; numfei' j ejmav, - to; loipo; n h[dh caivreq j wJ~ e[m j ou[pote devxesq j e[t j ejn koivtaisi tai'sd j eujnhvtrian” (vv. 920 - 922), o letto mio e stanza nuziale, addio per sempre oramai, poiché non mi accoglierete più come sposa nel vostro giaciglio.
Antigone portata alla tomba si compiange perché è rimasta ajnumevnaioς (876), senza nozze.
 La Medea di Apollonio Rodio invece bacia il letto della sua camera di ragazza nell’abbandonarla: “Kuvsse d j eJovn te levco~” (Argonautiche, 4, 26), quindi baciò anche i battenti, accarezzò le pareti, e dopo essersi strappata un ricciolo lo lasciò nella stanza della madre, ricordo della sua vita di vergine.
Per kuvsse da kunevo, aor. [ekusa, cfr. inglese to kiss e tedesco küssen

Non è vero che “il sacrilego”Euripide è eversivo nei confronti dei valori tradizionali quali aijdwv~, per esempio, e cavri~.
Il pudore, il ritegno è un predicato di nobiltà: “to; ga; r eugene; " - ejkfevretai pro; " aijdw' ” (vv. 600 - 601), il carattere nobile infatti è portato al ritegno, canta il Coro nel secondo stasimo dell’Alcesti.

Il tragediografo mette in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente dell'amicizia nell'Eracle dove Teseo non ha dimenticato l'aiuto ricevuto dall'amico che lo ha riportato in luce dal regno dei morti (v. 1222) e, disponendosi ad aiutarlo, gli dice: " cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine degli amici che invecchia, e chi vuole godere delle cose belle ma non imbarcarsi con gli amici quando se la passano male.

Nelle Nuvole di Aristofane la riservatezza e il ritegno contraddistinguono il giovane beneducato dal petulante sfacciato. Il Discorso Giusto prescrive al ragazzo di essere "th'" aijdou'"... ta[galm j " (v. 995), l'immagine del ritegno. Eppure secondo il linguaggiuto commediografo, Socrate, complice di Euripide, avrebbe insegnato ai giovani la spudoratezza.
Euripide a sua volta avrebbe messo in scena le varie Fedre e Stenebbee povrnai (Rane, v. 1043)
E avrebbe insegnato a stravolgere (strevfein), a macchinare (tevcnazein) a pensare (noei`n, v. 957)) in maniera critica riguardo ai valori tradizionali

Insomma avrebbe reso gli Ateniesi scelleratissimi (mocqhrotavtou~, v. 1010) da buoni e generosi che erano.

continua 

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