mercoledì 30 marzo 2022

Helena 18 Cunctator amoris. La vena gesuitica. I bizzarri malviventi

 

Risposi che fa parte del bene tutto quanto favorisce la vita. Il male, viceversa è ciò che la danneggia.

Aggiunsi che volevo insegnare ai ragazzini anche il coraggio di confutare i luoghi comuni privi di fondamento razionale e reale. Cercavo di capire, di imparare, di progredire, ma la meta più alta, il bersaglio sommo della mia ricerca era lei, Helena, la finlandese bruna bruna che un demone buono mi aveva fatto incontrare inopinata, misteriosa e meravigliosa, là, nel grande bosco in mezzo alla vasta pianura ungherese. Volevo scoprire il significato dell’enigma incarnato dalla sua persona.

La bella donna aveva sul volto un sorriso calmo, di soddisfazione profonda.

Quella sera di luglio, nella foresta di Debrecen, a un tratto Helena disse che stava imparando ad amarmi. Stavo per impazzire di gioia eppure, invece di baciarle le mani benedicendola, ebbro e frenetico di gratitudine, ricorsi a un’astuzia indegna dell’uomo che mi proponevo di sviluppare in me stesso, una mossa scacchistica di cui avevo sperimentato l’efficacia in passato.

“Ci risiamo!” dirai tu, lettore. Ti rispondo che quando non facevo calcoli prendevo fregature e bastonature da tutte le parti. E’ pur vero che Elena non meritava artifici.

Tuttavia calcolai che mi conveniva dissimulare la felicità. Questa  poteva stordirmi e spingermi a tentare un affondo che magari lei si aspettava, ma dal quale poteva ancora sottrarsi gettandomi nella disperazione.

Rapidamente decisi che avrei sferrato l’attacco (1) finale in un momento in cui la bella donna fosse ancora più intenerita e priva oramai di ogni remora o scrupolo ritardante. Decisi di essere io quello che procrastinava, l’accorto cunctator amoris. Per l’affondo risolutivo sarebbe arrivato un momento migliore.

Dopo un paio di frasi generiche, quasi insulse, dissi che oramai si era fatto tardi, che il giorno dopo c’era lezione e, dunque, si doveva tornare in collegio. Quindi mi alzai, quasi di scatto, dalla panchina dove ci eravamo seduti. In realtà non era tardi: era, sì e no, mezzanotte, l’aria era calda, il cielo sereno, e comunque durante il mese “debrezino” di studio-vacanza, ma più vacanza che studio, non era abitudine mia né dei miei amici andare a letto prima delle due. Allora non provavo la fame urgente dello studiare per imparare, una fame che sentirò più tardi e ancora più tardi arriverò a soddisfare, quando sarò arrivato all’accumulazione e alla sazietà dell’erudizione, del to; sofovn, il sapere neutro che non è sapienza e non sa di vita, non crea la vita come invece fa sofiva, la sapienza che è femminile (2) .  Ora, alla resa dei conti, posso dire che ho imparato dalle mie amanti, Helena in primis, più che dai libri i quali pure mi hanno istruito e formato non poco.

Oso addirittura affermare che i libri mogliori mi hanno aiutato a trovare le amanti più belle e più buone.

 Le parole e le idèe me le hanno insegnate gli autori, ma la vita l’ho appresa e l’ho presa dalle donne, le donne mie benedette che Dio le rimeriti.

Rientrato in collegio, rimasi alzato a scherzare giovanilmente con Claudio, tornato soddisfatto dalla festa nel giardino dei crapuloni, e con Alfredo, reduce dall’avere “puntato” non so quante Russe. Andava cercando di rimediare un po’ di sesso: “Qui a Debrecen - diceva - dovrebbero darci vittu (3) e alloggio, ma io finora ho avuto solo l’alloggio e muoio di fame”.

 E Fulvio, il caro amico di Parma commentava: “Eh, che voglia di brugna!”

Talora ritardavamo il primo sonno fino al biancheggiare del cielo con l’alba che a Debrecen in luglio si fa vedere verso le tre.

Spesso la gioventù non conosce la giusta misura.

A volte i miei contubernali facevano irruzione nelle docce delle femmine russe che, molestate, strillavano a squarciagola, o ululavano, tutte nude.

Allora gli scavezzacolli fuggivano, poi, finita la mattana, venivano a raccontare. Io non partecipavo a quei ioci inconditi, buffonate bizzarre e porcate obbrobriose, anzi li disapprovavo a parole, e alle donne mie dicevo che sentivo disgusto profondo e vergogna di tali contubernali e della loro giocondità oscena; aggiungevo quasi compunto che i miei scherzi, quando mi va di farli, sono molto seri, ma in verità, arrivata la notte, mi spogliavo dei paramenti da gesuita e  ascoltavo assai divertito i resoconti di quei lazzaroni, magari chiedendo di conoscerne tutti i dettagli peggiori. E in cuor mio auspicavo che simili scherzi continuassero, anche per riderne e sentirmi superiore ai gaglioffi che li mettevano in atto.

Come il Faust di Goethe, ero già troppo vecchio per partecipare a quei giochi insolenti, ed ero troppo giovane per non amare.

Aspettando l’amore, posavo a pensatore di giorno e sghignazzavo sulle porcate notturne.

Istrione e gesuita. In me scorre davvero una vena gesuitica, magari  a rovescio. 

 

A volte, finiti gli scherzi e il loro resoconto, ai primi albori, partivamo dal collegio per andare a Hortobágy, sul ponte di nove arcate, a vedere il sole sorgere sopra la grande pianura deserta e priva di alberi.

Eravamo un drappello di dieci giovani: una carnevalesca processione di satiri ebbri e sileni panciuti talora accompagnati da menadi più o meno frenetiche.

Quella sera non andammo sulla puszta ma, tra una risata e l’altra, facemmo comunque le tre. Avevo giocato o “mistificato”, come si diceva all’epoca, con l’angelo mio dicendole diverse ore prima che avevo premura di andare a dormire.

Non avevo la forza di essere me stesso fino in fondo, di diventare quello che sono, accettando il mio vero volto, in quanto non ero ancora convinto che nessuna maschera avrebbe potuto renderlo più bello. Finiti i lazzi più o meno osceni con Claudio e Alfredo, fescennini obbrobriosi non privi di battute pesanti sulle donne presenti in quell’oasi felice di amore e di studio, meno studio che amore, andai a sedermi sul grande tavolo della stanza compresa tra le due camere a quattro letti, e scrissi che volevo fare l’amore con Helena impiegando tutte le forze dell’anima mia. Un’anima dissociata evidentemente. Nel salutarmi mestamente lei mi aveva detto che i suoi dolori di ventre si erano acuiti: perciò il giorno dopo sarebbe andate alla clinica delle donne “pregnanti e malate”. Tale scritta campeggiava sul frontone dell’edificio compreso nel complesso ospedaliero.

Allora, commosso e un poco pentito del mio calcolare, le avevo detto: “Conta su di me per qualsiasi cosa tesoro: in qualunque momento tu abbia bisogno di aiuto, io ci sarò”.

Durante il congedo davanti alla porta del suo collegio mi era apparsa piccola, indifesa, bisognosa, e avevo sentito per lei una sollecitudine autentica, piena, disinteressata. Mi ero ricordato di essere un uomo, non un buffone né un saltimbanco dell’amore (4) .

Quella femmina umana che si fidava di me, era mia figlia, e questo completava il sentimento d’amore che la figura materna già mi aveva ispirato.

Prima di andare a dormire, scrissi queste parole: “Helena mi piace come mai prima nessuna. Mi piace non meno di mia madre. Mi piace più parlare con lei che fare casino con i miei complici di scelleratezze goliardiche. Mi piace perché è una mamma affettuosa e intelligente, è una sorella splendida, è una figlia adorata. Domani faremo l’amore, ne sono sicuro. Non lo scrivo profeticamente ma commisurando le nostre azioni”. Mi affacciai alla finestra completamente dimentico dei bizzarri malviventi nel mio collegio. L’aurora già scioglieva la nera notte e tingeva di rosa tutto l’oriente. Brillava la rugiada sui prati alla limpida luce.

Tutta la vita del bosco ricominciava con un sorriso.

 

Note

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 (1) Eros, Amore, è spesso associato a Eris, la Contesa.

 (2) Cfr. "to; sofo;n d j ouj sofiva" (Euripide, Baccanti, v. 395) , il sapere non è sapienza.

 (3) Parola finlandese che significa “fica”.

 (4) Cfr. "Non mihi mille placent, non sum desultor amoris" (Ovidio, Amores I, 3, 15) a me non ne piacciono mille, non sono un saltimbaco dell'amore.

 

Bologna  30 marzo 2022 ore 20, 35

giovanni ghiselli

p. s.

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