giovedì 31 marzo 2022

Elena 19 Il bosco sconsacrato. Il prato della sventura.

La mattina del 26 luglio del 1971, un lunedì, mi svegliai contento perché ero innamorato della Sarjantola e le avevo insegnato ad amarmi. “Ottimo risultato pedagogico, e pure erotico”, pensavo, speravo, ne ero quasi sicuro. “Il più importante successo della mia vita. Darà nuova forza alla mia identità”.

Volevo vederla, ma non avevamo preso un accordo preciso.

Alle 11, 30 dopo le lezioni, invece di andare a correre, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi, sperando che Elena si affacciasse  alla finestra di camera sua, come la sera prima, oppure, spuntata dalla parte dell’Università, la parte sud orientale, venisse  vicino a me, scortata dai raggi del sole .

Era un giorno di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone, la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul prato, dense e raccolte a quell’ora.

Il mondo era la rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi sicuramente mi amava.

Le ragazze uscivano dall’università e sorridevano alla bella stagione, alla vita. Le loro gambe si muovevano agili, allegre facendo sobbalzare i loro seni, fontane sacre del corpo, nutrici di vita.

A mezzogiorno già passato però, la bella donna biancovestita non si era  fatta vedere ancora. Eppure da quell’osservatorio cruciale in quanto posto all’incrocio dei nostri cammini, e dei nostri destini, avevo potuto osservare tutte le uscite, le entrate, i movimenti delle persone.

Mi domandavo: “l’ho forse offesa riaccompagnandola anzitempo in collegio dove oltretutto ero andato a prenderla tardi?

Oppure la bella donna, invero non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?

O addirittura il caldo di questa giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura cresciuta tra i boschi e i laghi iperborei, l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule da dove era partita, improvvida del nostro incontro pericoloso, una settimana fa? E io che la voglio prendere, sono come un fanciullo che insegue un uccello che vola[1], o cerca di afferrare con le mani un pesce che sguscia?”

Questa ipotesi mi parve orrenda.

Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano, chiedevo se l’avessero vista passare, ma Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo, Bruno, Silvano neanche. Loro non l’avevano in mente. Non sapevano che cosa fosse la felicità, né l’infelicità.

Nemmeno la garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta dava notizia di lei.

Il Cynicus parmensis  anzi proferì parole di malaugurio: “Chi la cancerogena? No”. Quindi aggiunse: “Tanto non guzza! Piantala con questo tuo fanatismo adolescenziale”.

 “Lo spirito diabolico che sempre nega, prima o poi la pagherà-pensai-, se non oggi domani o dopo domani. Al più tardi, il giorno del Giudizio:“ Iudex ergo cum sedebit-quidquid latet apparebit-nil inultum remanebit[2].

 

 La voce malignamente ominosa di quel  messaggero di un destino infausto questa volta mi turbò parecchio.

“Pensa, lettor, se io mi sconfortai

Nel suon delle parole maladette”[3].

 

“Di bocche senza freno, di follia senza misura, il termine è sventura”[4], gli ricordai mentre al dolore si aggiungeva dolore.

A mezzogiorno e mezzo mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando di colui si incinse. Temevo qualche metamorfosi negativa.

Infatti l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.

Nella mia mente incantata le immagini strane  subivano una dilatazione semantica: attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.

Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola tremenda di Venere[5] e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata. Cupi vapori arroventavano l’aria.

Vedevo invecchiare rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da serpi velenose, si dissecava e piegava sospinta e inaridita da un fiato maligno, i fiori diventavano ombrosi come quelli dell’Ade, le foglie ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si oscuravano e sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, si attorcigliavano, gli amici diventavano orrendi e penosi: facce e teste svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli: quasi teschi mozzi strappati a denti di belve[6].

Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi. Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme.

Potevo fare la fine del martire sulla croce o sulla graticola dell’amore.

Perfino il sole,  il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva un lume fioco e afflitto,  fino a sparire annientato da una densa caligine afosa esalata dalla mia sofferenza.

Senza di lei il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco, perfino quella delle ragazze fiorenti.

La divina foresta spessa e viva stava diventando la selva dei suicidi.

“Non fronda verde, ma di color fosco

Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”[7]

 

Sentivo il verso, altre volte gradito, delle tortore come il lamentoso singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare la vita. A poco a poco il cielo spariva.

Oscene cornacchie profetizzavano il rinnovarsi di remoti sfaceli ripetendo continuamente il loro lamentevole kár  kár [8] .

Note

33Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv.387 e sgg.) leggiamo:"Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che,sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".

 

34 Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente  rimarrà invendicato. Sono versi del  dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo) 

 

35 Dante, Inferno, VIII, 94-95

36 Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.

 

37Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ " (III, 24, 13-14), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.

 

38 Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.

39 Dante Inferno, XIII, 4-6.

40 Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragédiája, 18269 ha scritto  che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

 

Bologna 31 marzo 2022 ore 19, 34

giovanni ghiselli

p. s

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Due giorni di pioggia, di scarso moto fisico di appesantimento e malessere tanto fisico quanto mentale. L’amante è lontana, se pure è ancora viva. Non dico di Elena.

 

 



[1] Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv.387 e sgg.) leggiamo:"Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che,sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".

 

[2] Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente  rimarrà invendicato. Sono versi del  dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo) 

 

[3] Dante, Inferno, VIII, 94-95

[4] Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn-ajnovmou t j afrosuvna~-to; tevlo~ dustuciva”.

 

[5] Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ " (III, 24, 13-14), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.

 

[6] Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.

[7] Dante Inferno, 4-6.

[8] Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragédiája, 18269 ha scritto  che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.

 

 

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