A metà strada, Elena disse che da come guidavo sembravo una persona gentile e sicura. Ero tutto contento. Mi sembrava che un cielo più vasto vestisse il mondo di luce purpurea. Duravo fatica a non scoppiare di gioia. Ma non dovevo esplodere. Era opportuno soltanto procedere accrescendo l’abbrivio del successo appena iniziato. La bella donna, presa di mira dalle mie brame, dal bisogno del suo corpo e del mio riscatto, stava entrando in sintonia con me. Non c’è niente di meglio nel breve e rapido corso di questa vita mortale, attesi come siamo dal triste nocchiero[1] che ci fa fretta arrivando perfino a gridare mentre dormiamo: “sbrigati, tu mi fai perdere tempo!”. Allora ci svegliamo risoluti a compiere quanto dobbiamo a noi stessi prima che sia troppo tardi.
Stavo ritrovando l’amore difficile, troppo spesso smarrito, di mia madre, della nonna Margherita, di mia sorella, Margherita anche lei, e delle nostre zie, Rina, Giulia e Giorgia. Le ho recuperate tutte al mio affetto e alla mia gratitudine grazie anche all’amore contraccambiato da Elena.
Attraversando la puszta con gli occhi umidi dalla felicità, notavo con simpatia le oche e le pecore bianche, gli enormi maiali neri, le falangi pacifiche di girasoli verdi e gialli, i cavalli pezzati, le farfalle variopinte, i pozzi dalle lunghe antenne scenografiche; tutto con simpatia e gioia guardavo, perfino le grosse nuvole scure e acquose che da occidente minacciavano pioggia.
Scorreva un torrente cromatico con un mormorio che faceva eco ai miei sentimenti.
Ogni cosa aveva una sua attrattiva siccome era parte di un processo naturale che mi apparteneva. Era lo scenario della mia crescita in termini umani.
Mi sentivo in armonia e in comunione con il mondo, come sempre succede quando si viene contraccambiati nell’amore o quando si crea qualche cosa di bello. Questo l’avrei fatto più avanti, se quella donna ispiratrice di sentimenti forti avesse riconosciuto e favorito il mio genio.
Lo sto facendo ora, 51 anni più tardi, per voi lettori che mi leggete a centinaia di migliaia nel blog. Eravate già più di un milione e 100 mila quando festeggiai le mie nozze d’oro con Elena, il luglio scorso.
Arrivati a Hortobágy, distante da Debrecen una trentina di chilometri, entrammo nella grande osteria dove gli zigani suonavano violini e cembali.
Nella loro musica, già ascoltata negli anni precedenti in vari locali di Debrecen, e lì nella puszta, sentivo fin dall’estate lontana del ’71, l’eco di un tempo remoto che però non mi induceva alla nostalgia, anzi mi dava la spinta a procedere, “soffio possente di un fatale andare”[7], poiché confrontando il presente con il passato, notavo un continuo progresso che non si sarebbe arrestato durante la mia vita terrena, forse neppure oltre la morte. I suoni discordanti che componevano la mia vita potevano essere armonizzati in una melodia ricca di significato e di promesse riguardo a successive conquiste in termini di umanità.
“Chi si affatica sempre a procedere oltre, noi possiamo redimerlo”, dice il coro di angeli nell’atto di salvare Faust[8]. Questo ricordai speranzoso.
Entrammo e ci mettemmo seduti a un tavolo situato vicino a una stufa di maiolica o terracotta policroma, bianca e azzurra come una formella robbiana. Mi vennero in mente quelle viste alla Verna un pomeriggio nel quale ero salito lassù durante un giro ciclistico della Toscana.
Ero già andato a vedere la Maddalena di Arezzo, la Madonna incinta di Monterchi e la Vergine della Misericordia di Borgo Sansepolcro: figure semplici e belle, ideali e reali, dolci e risolute come la donna che stava seduta di fronte a me.
La poesia di spirito e carne di Elena non stava al di sotto della poesia matematica di Piero, anzi. Confrontavo ricordando.
Quel giorno dell’estate precedente, le immagini di Piero della Francesca, il giaciglio dell’onesto Francesco, lo stesso Gesù della pinacoteca del Borgo, il Cristo che esce dal sepolcro, “accigliato colono imbalsamato dal sole”[9], mi avevano riconciliato con la religione cristiana, facendomi antivedere una risurrezione mia, grazie alle donne belle e fini che avrebbero donato gioia e conforto alle solitudini immense, offendo strane consolazioni alle fatiche erculee dei questa mia vita da asceta pagano cui sono predestinato da sempre e per sempre.
A un tratto le dissi: “quando sarò vecchio, farò risuonare ancora la memoria di questa giornata”.
“Tu sarai sempre giovane” ribattè la donna.
“Proprio così” -dissi io con un sorriso venato di ironia, per schermirmi e includere la generosa-“ se è vero che gli dèi donano una tripla gioventù alle persone belle e buone, come sei tu di sicuro, e magari sia pure molto meno, anche io”.
Il fatto è che forze superiori alle nostre, affini alle marèe o alle rivoluzioni dei pianeti, ci spingevano oramai l’uno verso l’altro
Note
6 Caronte
[7] G. Pascoli, Alexandros, v. 34.
[8] Goethe, Faust, II, 5, Gole montane.
[9] Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, p. 83.
[7] G. Pascoli, Alexandros, v. 34.
Bologna 11 marzo 2022 ore 11, 11
p. s
Statistiche del blog
Sempre1224669
Oggi127
Ieri394
Questo mese4490
Il mese scorso12195
Nessun commento:
Posta un commento