1. La prima versione verista
Una mattina del gennaio del
1875, una giovane alquanto robusta, ma dallo sguardo acuto e dal moto perpetuo,
in barba alla mole, la ventenne Matilde Serao, fra un telegramma e l'altro,
svolazzava fra i banchi dell'ufficio postale del Vomero. Non disdegnava di
leggere e comporre novelle sul modello di Emily Dickinson, conosceva Flaubert e
un avvocaticchio di campagna, tale Emile Zola. Appena laureata al magistrale,
con poca speranza di insegnare perché donna; una cosa le era però chiara: fare
un salto di qualità per la sua carriera, scrivere sui giornali, fare come
Madame de Staël in un'epoca e in una nazione così lontana, la Francia di
Diderot e di Voltaire. Lei che era confinata nel triste territorio d'Italia e
nella Napoli arretrata postborbonica, mille miglia lontana dall'ideale di
uguaglianza che aveva infiammato l'evoluto Nord e che si era spento dopo
l'esperienza garibaldina. “Opale”, “Leggende napoletane”, comparivano sul
“giornale di Napoli” e sul “Piccolo”, novellette che preludevano a una analisi
materialista della realtà femminile grigia e rassegnata, in una Napoli popolare
che Eduardo De Filippo rappresenterà quasi immutata nei primi decenni del '900.
Essere stata figlia di un avvocato esule mazziniano in Grecia e aver avuto una
madre greca, la motivarono come un amazzone, anche se l'uso di pseudonimi che
nascondessero il sesso della scrittrice la rendevano piuttosto cauta in quell'ambiente
maschilista prettamente conservatore nei costumi e solo formalmente liberale.
Nel 1882 la fuga a Roma - “La
conquista di Roma”, un suo romanzo del 1885 – è opera indicativa di quella
prima svolta. Qui divenne redattrice di periodici letterari, dal “Capitan
Fracassa”, alle “Cronache bizantine”, fino a collaborare con la “Nuova
Antologia”, “il Fanfulla della domenica”, “La domenica letteraria”. Sono gli
anni del suo accostarsi sempre più convinta al Naturalismo dello Zola.
L'alternanza fra novelle e romanzi, in quel periodo di estrema povertà a Napoli
e di trasformismo politico a Roma, che Matilde odiava e sferzava nei suoi
interventi giornalistici di costume, è significativa. Romanzi come “Fantasia”
(1883); l'inchiesta giornalistica “Il ventre di Napoli”, sulla estrema realtà
degradata nei quartieri spagnoli (1884); “La virtù di Checchina”, novella edita
a Catania nello stesso anno, letta con attenzione da Verga e Capuana; “Il
romanzo della fanciulla” (1886); la mettono in luce nel nuovo panorama
letterario. Intanto nel 1885 sposava il maturo Edoardo Scarfoglio, un
giornalista napoletano radicale emigrato a Roma, direttore del locale
“Corriere” insieme al quale apriva il suo salotto ai letterati e ai critici più
in voga, frequentato dall'amica Eleonore Duse e dal giovane D'Annunzio, con
Pascoli e Carducci suoi amici dell'ora del tè. Il fiero contrasto con il clima
letterario troppo parruccone e le critiche politiche alla coppia dei
giornalisti vicini alle idee democratiche, troppo favorevoli alle intemperanze
di Felice Cavallotti, senza contare i debiti del marito; li convinse a
rientrare a Napoli.
Fra il 1886 e il 1901. Lo
sviluppo dei giornali che fondarono - in sequenza storica e di successo, “Il
corriere di Napoli” e “Il Mattino” - e la crescita intellettuale della Serao,
produssero il decollo del genere “feuilleton” sulla stampa e il successo del
pubblico piccolo borghese - quello delle. “sartine” - frutto di un sovrapporsi
di cronache popolari e quasi da “gossip”, in spregio spesso del conformismo
borghese. “Fiore di passioni” (1888); “All'erta sentinella” (1889), “La donna
dall'abito nero” (1892); “Gli amanti” (1894); “Le amanti” (1894); “Donna Paola”
(1897); infiammarono i popolani di Via Toledo e i nobili del caffè Gambrinus.
Un banco di prova nuovo fu la rubrica “Api, mosconi e vespe” che la Serao
intratteneva con risposte e tematiche argute e ironiche ai lettori del
“Mattino”.
Era la continuazione del
“Ventre di Napoli” con modalità e linguaggio aperto e inusitato, una fotografia
di una società ricca nelle speranze, povera nell'economia reale, rivolta al
futuro ma rassegnata nelle tristezze del presente. Il Dio che reggeva quel
mondo era il gioco del lotto; l'inferno era il fallimento dei piccoli borghesi
e la continua fila al banco pegni: prostituzione, tradimenti, omicidi e
camorra. “Il paese di Cuccagna” (1891) preceduto dalla succosa novella “Terno
secco”, una storia boccaccesca che anticipava le prossime novelle umoristiche
di Pirandello, la consacrarono regina del naturalismo italiano. Il suo secolo
letterario si chiudeva con il romanzo "La ballerina" (1899), dove una
povera danzatrice di terza fila del S. Carlo, innamorata di un nobile
squattrinato che non la guardava più di tanto, passerà notti insonni a vegliare
il suo cadavere suicida. Fu una svolta letteraria che pochi percepirono (per
es. il marito Scarfoglio) che temeva non a torto un cambio di passo del
giornale, lontano da tali note un po' mistiche. Non la comprese il Croce, che
anzi in un primo momento aveva guardato con simpatia la verve critica della
signora giornalista un po' troppo sboccata, ma sincera e accattivante. Il
crescente senso di inquietudine della sua scrittura stupiva, al pari del
fermento sociale che vedeva il popolo scendere a Milano per chiedere riforme
sociali e un Re assassinato da complotti anarchici che facevano rabbrividire la
benestante piccola borghesia al Governo. Lo stretto legame colla scuola
francese naturalista e il verismo di Verga e Capuana l'avevano elevata nel
mondo della cultura italiana di fine secolo. Il giornalismo d'inchiesta era lo
strumento estetico della conquista di Roma e di Napoli. Ma il sentimento
romantico prevaleva ancora fra le righe dei giornali che dirigeva. Nondimeno,
l'essere donna, giornalista e meridionale, in quel tramonto di secolo non le
bastava ancora. Se un anno cruciale vi fu nella vita della Serao, sia dal lato
artistico, che dal lato esistenzialista, quello fu il 1900. Per i cinque anni
successivi – va ricordato lo scontro politico col capo della destra storica,
Giuseppe Saredo, nazionalista e guerrafondaio, falso accusatore di complotti
anarchici attribuiti ai coniugi Scarfoglio per screditare “Il mattino”,
battaglia a lungo combattuta e vinta dai due, ma con un forte disaccordo che li
oppose anche politicamente e personalmente; ma anche una vicenda di tradimento
e di suicidio dell'amante del marito scoperto, che produsse l'irrevocabile loro
separazione di talamo e di interessi. Tanto che Matilde nel 1904 lasciò “Il
mattino” e fondò un nuovo giornale,“Il giorno di Napoli”, che diresse fino alla
morte, pur cristianamente perdonando il marito e adottando la neonata “frutto
della colpa”, col nome della madre. Tuttavia la relazione con lo Scarfoglio non
terminò subito: sintomatica fu l'apparizione della commedia - o meglio della
tragicommedia - “Dopo il perdono”, nel 1908, un'altra anticipazione di un nuovo
genere di teatro, quasi “dell'assurdo”, se tale era quello di portare sulle
scene la ricomposizione familiare, a patto di accogliere come figlia legittima
chi non lo era. Operazione che Pirandello pochi anni dopo portò alle estreme
conseguenze con “Pensaci, Giacomino” del 1916. In realtà un demone alternativo
era entrato nel pensiero della Serao. Il romanzo del 1909 “I capelli di
Sansone”, narrava la storia di un uomo/macchina, cioè una cosa animata, che
pensava e scriveva, dal cui profondo sgorgava un “mostro”, la “Stampa” che si
presentava così al pubblico dei lettori. Una riedizione della bambola meccanica
“Olympia” di E.T.A. Hoffmann? Oppure la mitizzazione della macchina immortale
che già Wells aveva descritto nella quasi coeva creazione fantastica della
macchina del tempo? Infatti, un supplemento d'anima prendeva forma nel suo
stile alla ricerca del nuovo spirito come reazione al naturalismo letterario di
fine secolo, che la Serao aveva brillantemente attuato attraverso le sue
inchieste in forma di romanzo. Fra le righe del romanzo e della pièce teatrale,
le sua figure vivevano non solo dei costumi quotidiani che da cronista aveva
sapientemente scolpito, ma anche di un sentimento che riaffiorava in ogni
evento del quotidiano. Il cambio di passo era imminente.
2. La seconda scelta
Come si è anticipato, nel
1899, un breve romanzo, "La ballerina", era uscito improvvisamente
nelle librerie, contraddicendo la sua consolidata prassi di pubblicazione a
puntate nei giornali popolari. I lettori aspettavano con ansia i tradizionali
romanzi rosa - per esempio, “Gli amanti” (1894) e “Le amanti” dello stesso anno
- e la critica con Giovanni Cena, dalle colonne della “Nuova Antologia”, tuonava
contro la scuola naturalista italiana che "alimentava l'ignoranza delle
casalinghe napoletane”. Piuttosto, nella “ballerina” veniva a coesistere il
classico amore del ricco libertino per la povera “operaia” abbandonata spesso
sulla via della prostituzione per fame; e la stupefacente devozione dell'amata,
imbruttita e desolata, che lo veglia tutta la notte, quasi vicina al
suicidio...Ma è con la successiva “suor Giovanna della Croce” (1901) che la
barriera verista viene superata. Partendo da una vicenda di vita monastica di
donne sepolte vive - e qui, la difesa della libertà femminile permane! - perché
in assoluta clausura, con il viso coperto da un velo nero impenetrabile, ma
contente di essere finalmente libere nel loro intimo; intervenne la legge Crispi
che abolì quei conventi e dunque Giovanna tornò civile in età matura. Ma qui
sta il dramma: è tornata nella società dell'oppressione, dell'amore
impossibile, della povertà, salvo a vendere il proprio corpo, a lavorare duro
per ricevere solo odio e dolore... E' ora una vecchia cameriera che raccoglie
le mance dei clienti per superare la tristezza dell'amore e la fame incipiente.
Al termine del romanzo, la vecchia ex suora incontra una ricca sposina nel
ristorante di lusso dove la poveretta pulisce i tavoli. La sposina le vuole
dare un'elemosina, mentre il marito infastidito vuole mandarla via. Inizia
allora un dialogo serrato, dove il lettore attento non vi può non ravvisare non
poche figure di Čechov, per esempio la “Signora col cagnolino”, un racconto molto
celebre del 1899, il cui finale nostalgico aveva impressionato la platea
europea. Anche qui, la nostalgia del periodo di clausura è molto sottolineata.
Ma Giovanna non rinnega neppure il presente e la vita mondana. Era una vinta
solo in apparenza, ma mai doma nell'animo, come le umili eroine successive
della sua produzione, ormai passata alla sponda del nascente espressionismo. La
polemica subito le scoppiò addosso, con l'ex marito Scarfoglio in testa, che la
rimproverava di essere diventata una “femminista della peggior specie”, ivi
comprese le superficiali critiche del Croce, che ancora nel 1922 interpretava
le ultime scelte come un fuor d'opera, quasi un inutile orpello, o peggio un
sentimento retrivo di misticità irrazionale, quasi una revisione radicale dello
spirito verista del primo periodo. Ma non mancò però una critica ben più
organica, che fuggì dai canoni storicistici e delle pastoie idealiste,
sollevate perfino contro l'ultimo Hugo e che nel melodramma naturalista di
Mascagni e Leoncavallo allo scoccare del nuovo secolo tentavano di soffocare il
genio di un Fogazzaro e di un Pirandello. Lo scandalo letterario della
“ballerina” che baciava un cadavere e di una vecchia che rimpiangeva la vita
monastica di clausura; fecero dire a Leo Spitzer, giovane critico classico di
Heidelberg, già nel 1914, come il dramma della Serao a Napoli - “O Giovannino o
la morte” (già rappresentato nel 1912) – fosse andato oltre la scuola
naturalista di Zola e dello stesso verismo di Verga. Qui si era avuta una rinascita
decadentista della Serao, perché si era espansa nella sua poetica la simpatia
per il brutto e il deforme, anche se Matilde non dimenticava le donne
napoletane che con Lei ardevano d'amore, trasgressive sì, ma lottatrici e di
superba moralità. Quindi perché non accettarne un percorso di redenzione
morale? Forse che la “Santuzza” di Verga era meno donna della “Katjuša Maslova”
di “Resurrezione?” Forse che “Giovanna” non poteva stare in quell'Olimpo
letterario altrettanto reale? Giudizio che dava alla poetica della Serao un
supplemento d'anima, che ben si confaceva, pur in forma mistica,
all'espressionismo religioso che proprio in Germania stava emergendo nei drammi
di Hauptmann. Spitzer concludeva la sua isolata ma penetrante analisi sulla
Serao, qualificandola come una scrittrice geniale, in quanto adoperava una
tecnica simbolica molto suggestiva di stampo giornalistico, però da suscitare
nel lettore uno straordinario senso di memoria individuale e collettiva, che
avrà nel mondo tedesco uno straordinario protagonista in Bertold Brecht, soprattutto
nella “Opera da tre soldi”, una singolarissima sintesi di verismo e
espressionismo tarato sul messaggio politico. In una parola il critico tedesco
vide in lei anche una scrittrice epica nel contesto del teatro borghese. “Dare
del genio epico” ad una autrice ormai matura nel suo collaudato pensiero, non
parve improprio allo Spitzer, “nella misura in cui la sua arte non escludeva un
valore politico, come se di Platone si facesse il resoconto senza parlare della
sua Repubblica”. E fu la nuova via. L'opinione pubblica assistette ad una
conversione inusitata, ovvero ad una perfetta osmosi fra giornalismo e
letteratura. Il suo iniziale benvolere per il radicale Cavallotti, divenne
simpatia per il democratico Colajanni durante la vicenda dello scandalo della
Banca Romana. Noti furono i contrasti con Carducci, traditore dell'ideale
libertario e romantico. Amica fu del Pascoli e del giovane D'annunzio e poi dei
socialisti napoletani, specialmente con Cafiero e poi l'ammirazione per il
coraggio di Enrico Malatesta. Tuttavia su due punti le biografie ancora si sono
sempre divise: in primo luogo, il suo silenzio politico e anzi una certa
condiscendenza sul Fascismo, quando nel 1922 il suo “Giorno” sembrava aderire
alla “Marcia su Roma” contro l'opposizione dell'ex marito sulle pagine del
“Mattino". Ma la negazione del femminismo di inizio secolo appare poi in
linea col suo carattere sarcastico, quando alla domanda diretta sbottò ridendo
“di non saperne nulla...” Le sue simpatie socialiste e l'antipatia per
Mussolini le fecero perdere però il Nobel nel 1926, quando il Governo italiano
non appoggiò la sua candidatura, segnalando invece la meno quotata Grazia
Deledda, più condiscendente verso il Regime. Infine fu il suo pacifismo e le
forti contumelie lanciate contro Giolitti nella guerra di Libia nel romanzo “La
mano tagliata” del 1912 - e nell'ultima rielaborazione delle sue prime novelle
“La vita è così lunga!” del 1918 - ad isolarla nel primo dopoguerra. L'ultimo
romanzo, “Mors tua”del 1926, fu un inno al pacifismo e una preghiera di tutte
le madri contro la guerra, un canto epico che in tempo di guerra quale quello
attuale vale la pena di essere ricordato.
Giuseppe Moscatt
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