Adriana Pedicini
Il fiume di Eraclito
Poesie
Editore Mnamon, 2015
Ho letto questa bella raccolta di poesie di Adriana
Pedicini.. Nella prefazione l’autrice scrive: “il fil rouge delle liriche che
compongono la raccolta è il Weltshmertz
(il soffrire universale) già cantato dei romantici senza patetismo ma con intensa
commozione (p. 7).
Già in queste pagine del prologo si sente la presenza nobile
e antica dei classici greci e latini: altri temi anticipati sono “il mistero
che ci circonda”, l’angoscia che proviene “da tale buio”, “il tempo impietoso”
che “non concede tregua” e l’abisso che “alla fine ci attende” e non possiamo
evitare. A questo proposito la
Pedicini cita i versi conclusivi della seconda strofe del
primo stasimo dell’Antigone di
Sofocle.
Traduco qui l’intera strofe siccome prefigura alcuni
contenuti e significati di questa raccolta.
L'uomo ha imparato a organizzarsi e a difendersi da tanti nemici,
sia interni sia esterni, ma non ha mai trovato un rimedio risolutivo contro la
morte.
“E la parola, e pari al vento il
pensiero, e a regolare gli istinti con le leggi
della città ha imparato, e a fuggire
degli inabitabili geli gli strali a cielo scoperto
e gli scrosci delle piogge terribili
con ogni risorsa; senza risorse per niente va
verso il futuro; da Ade soltanto
non potrà procurarsi lo scampo;
eppure da malattie immedicabili ha escogitato
vie di uscita" (Antigone,
vv 353-364).
Dunque è dissennato mancare di rispetto alla vita, commenta
Adriana, in quanto è “l’unico bene che possiamo saggiamente amministrare, senza
esserne peraltro possessori” (p. 8).
Viene in mente Epitteto che scrive: “ricorda che sei attore
di un dramma (mevmnhso o{ti upokrith;ς ei\ dravmatoς ), ma il regista è un altro, e il tuo compito è recitare bne
(uJpokrivnasqai kalw'ς) il ruolo che ti è stato assegnato (to; doqe;n provswpon) [1].
L’individuo però è spesso fuorviato dalla tracotanza (u{briς) “in alcuni casi correlata a una
radice di male più profonda e lontana, frutto di una eredità di colpe che
risalgono a un passato precedente la sua esistenza: la catena delle
“maledizioni” risale allora alle origini remote della stirpe” (p. 8).
E’ quanto si legge, per esempio, nei Sette a Tebe di Eschilo dove il protagonista Eteocle non è
personalmente colpevole ma deve pagare per
"la trasgressione antica
"la trasgressione antica
dalla rapida pena
che rimane fino alla terza generazione:
quando Laio faceva violenza
ad Apollo che diceva tre volte,
negli oracoli Pitici dell'ombelico
del mondo, di salvare la città
morendo senza prole;
ma quello vinto dalla sua dissennatezza
generò il destino per sé,
Edipo parricida
che osò seminare
il sacro solco della madre, dal quale nacque
radice insanguinata,
e fu la pazzia a unire
gli sposi dementi"(vv.742-757).
Quindi la
Pedicini menziona opportunamente un altro aspetto cruciale,
decisivo di non poche tragedie: il tw'/
pavqei mavqoς, la comprensione attraverso il dolore “l’unico veicolo
possibile della conoscenza” (p. 8).
Il tw'/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone (v. 177) di Eschilo ritorna
in altre forme e in altri autori, antichi e moderni
Faccio solo un esempio: nell'Alcesti di Euripide. Admeto, sentendo e soffrendo il peso della solitudine
dopo che ha chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per
salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw",
condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In seguito a questa
resipiscenza, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di
Eracle.
Ora vediamo una poesia di Adriana, quella che spiega la
scelta del titolo dell’intera raccolta
Panta rei (p. 83)
Un giorno trascina l’altro e sono tanti
inutile dividerli in ieri oggi domani.
Il fiume va sempre al mare
dal cielo sempre la stessa pioggia,
sempre uguale.
Passano nell’aere le nuvole del tempo.
Il nastro rosa celeste della vita
s’intreccia al nero viola della morte.
La memoria non contiene tutto
si ferma al particolare
e lo fa eterno.
Questi versi raccolgono in una sintesi densa e mirabile ciò
che in questo mondo si squaderna davanti ai nostri occhi mortali: il tempo, il
cielo, il mare, la terra.
Leggendo questa e altre poesie del volume, si vedono davvero
eternati alcuni aspetti di questo nostro rapido esistere, notati con un’attenzione
precisa, filologica, eppure piena di meraviglia devota e commossa davanti al
mistero di una natura che è piena di dèi e induce la persona sensibile a
sentirsene parte vivente.
Leggiamo anche la poesia Resurrexit
(p. 39)
Ho camminato su sentieri innevati
dove l’aria profumava di fresco
e il passo morbido non ledeva
le genziane nate da poco.
Le zolle brune e i pascoli mansueti
occhieggiavano sulle bianche macchie
dove il ragno spandeva il suo calore.
Sottili dai boschi colavano
rivoli d’acqua e la cascata bucava
con vorace scroscio la roccia.
In rapido corteo le nuvole
giocavano a rincorrersi
dispettose l’azzurro nascondendo,
il vento rapendole al cielo
in lunghi veli le sfrangiava
di angeli dalle ampie ali.
Dalle piume
come da piccole canne
di organo nascosto
saliva la melodia
del Resurrexit.
E l’eco lontana
nell’azzurro errabonda
al cuore giungeva
a placare le onde inquiete
di mille domande.
Il passo che “non ledeva le genziane nate da poco” ci dice
il sacro rispetto davanti a questa natura creata dal più bravo degli artisti
come afferma Platone nel Timeo[2].
Anche il ragno in questa opera d’arte ha la sua funzione
positiva per la vita. Molto bella, plasticamente bella l’immagine della cascata
che “bucava con vorace scroscio la roccia”.
Viene in mente la cascata di La montagna incantata di T. Mann: “avvicinandosi alla cascata si
sentiva un fracasso sibilante, poi un frastuono. La videro: lo spettacolo era
infernale: una catastrofe continua di schiuma e clangore che li stordiva con il
suo rombo folle e smisurato , provocando pure allucinazioni acustiche”.
Le nuvole dispettose che nascondono l’azzurro fanno pensare
a ragazzine capricciose, e le ampie ali degli angeli dalle piume sonore evocano
il canto delle Moire sull’armonia delle sirene nel mito di Er dell’ultimo libro
della Repubblica di Platone. Questa
poesia mostra che tutta la natura è imparentata con se stessa[3],
tutto scorre e interferisce insieme, e tale visione placa “le onde inquiete”
del cuore.
Adriana sa essere espressiva anche con il silenzio, ossia
con l’utilizzo di poche parole.
Mi viene in mente quanto scrive Nietzsche : “Nessuno ha
ancora spiegato perché gli scrittori greci abbiano fatto dei mezzi di
espressione, di cui disponevano in quantità e forza sbalorditive, un uso così
straordinariamente parco, che al paragone ogni libro posteriore ai Greci appare
sgargiante, variopinto e sforzato…Lo stile sovraccarico in arte è la
conseguenza di un impoverimento della forza di sintesi…Così è per Shakespeare,
che, paragonato con Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro,
piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto oro, ma oro lavorato nel modo
più nobile, tale da far dimenticare il suo valore come metallo”[4].
Poi Dostoevskij: “Quello che sanno parlare bene, parlano
brevemente”[5].
CONTINUA
[2] Dove si legge
che Dio, creatore di un cosmo bellissimo, è il migliore degli autori. Se il
cosmo è bello (eij me;n dh; kalovς ejstin o{de oJ kovsmoς) l’artefice è buono (o
Jdhmiourgo;ς
ajgaqovς). Il
demiurgo, (a[ristoς tw̃n aijtivwn), ha guardato al modello eterno (pro;ς to;
ajivdion e[blepen). Sicché il cosmo è la più bella tra le cose nate (kavllistoς tw̃n
gegonovtwn 29a).
[4]
F. Nietzsche, Umano, troppo umano,
II, p. 43, p. 45, p. 57.
[5]
Dostoevkij, I Demoni, p. 223.
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