De Mauro nota che tra lingue parlate in Europa nel primo
millennio, hanno avuto massima persistenza il greco, il basco, le parlate
celtiche in Gran Bretagna e quelle della nostra penisola.
“L’Europa linguistica riflette oggi, nel complesso, gli
assetti che raggiunse nel tardo Medioevo. L’Italia linguistica del 1946,
invece, aveva una configurazione che rifletteva non solo la latinizzazione,
realizzatasi molto lentamente, e mai del tutto compiutasi, tra III sec. a. C. e
inizi dell’età imperiale, ma anche le condizioni più antiche (…) Una forte e
stabilizzata differenziazione etnico-linguistica delle popolazioni caratterizzò
l’Italia preromana rispetto a ogni altra area europea. A metà del primo
millennio a. C. l’Italia era occupata da popolazioni di assai varia provenienza
e inserimento nel territorio, e quindi da una varia selva di idiomi eterogenei,
indoeuropei e non indoeuropei, alcuni di più remoto radicamento nel suolo
italiano, come l’etrusco e il sardo, altri importati in fasi più recenti da
oltre le Alpi e attraverso l’Adriatico e il Mediterraneo centrale come il
messapico, il greco, il punico” (p. 25)
Segue un elenco di lingue parlate allora in Italia.
Del resto Leopardi nell’Ottocento continua a considerare la
lingua italiana “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la
francese è unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle
forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra
lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca.
Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente,
più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso
genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per
ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di
natura e di carattere” (Zibaldone, 964
e 965).
Per quanto riguarda la lingua greca, più avanti leggiamo “Chi
vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e
come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo
che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso
libro; legga il Fedro di Platone. Nel
quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che
compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di
Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di
Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717).
Ma torniamo a De Mauro e all’Italia della metà del I
millennio a. C.: “Il latino era parlato solo dalle popolazioni di una piccola
area compresa tra Monti Tiburtini, Colli Albani e foce del Tevere, contornate e
incalzate da popolazioni che parlavano etrusco, osco umbro e greco,
quest’ultimo portato nel cuore della città di Roma da mercanti. Nell’Italia
moderna la sola diretta sopravvivenza di tanti idiomi diversi dal latino è il
greco, che nel Medioevo continuò a essere parlato estesamente in Sicilia, nel
Sud e nella stessa città di Roma e, secondo una tesi accreditata,
sopravviverebbe ancora nelle parlate neogreche della Calabria e del Salento.
Per il resto dominano non le dirette sopravvivenze degli idiomi non latini,
bensì le continuazioni del latino, o meglio le sopravvivenze di ciò che il
latino era andato diventando sulle bocche delle varie popolazioni di diverso
idioma (…) Le radici dell’Italia linguistica moderna e del Novecento stanno
ancora nell’assetto linguistico dell’Italia alla fine del I millennio a. C. e
nella persistenza, per quanto indiretta, della politica linguistica della Romana res publica. Non si intende il
presente senza almeno rievocare quelle radici” (p. 26).
La conoscenza del latino amplia sicuramente la visione
mentale. A questo proposito, Schopenhauer ha lasciato un’immagine efficace: “L'uomo che non conosce il latino
somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il
suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che
gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece
l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più
recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura il sanscrito
allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non conosce affatto il latino,
appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo
dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di
fluoro"[1].
“Roma non impose mai
in modo pianificato la sua lingua. E, del resto, anche all’interno del suo più
stretto territorio tradizionale non impose mai la norma colta urbana e lasciò
che sopravvivesse il sermo rusticus.
Entro la stessa Urbe fu tollerato che a diversi livelli sociali avessero corso
parlate altre dal latino e al livello più alto fu privilegiato e, almeno dal
tempo degli Scipioni e di Catone Censore, perfino idoleggiato il greco. Perciò
dalle diverse popolazioni dell’Italia la lingua di Roma fu appresa in tempi e
con modalità differenti, trasferendo nelle varianti locali del latino modi
fonetici ed elementi lessicali dei preesistenti idiomi locali”. (p. 27)
Nel Satyricon si trova
un sermo familiaris che si alterna spesso col sermo plebeius e
col sermo rusticus . Il realismo
di Petronio lo porta ad attribuire a ogni personaggio il modo di esprimersi del
ceto cui appartiene
A proposito di realismo antico Auerbach sostiene che
il Satyricon rappresenta la realtà in maniera più ampia
e meno stilizzata dei realisti alessandrini, quali Teocrito nelle Siracusane
(XV) o Eroda nel lenone (III). " Petronio, " come un realista
moderno, pone la sua ambizione artistica nell'imitare senza stilizzazione un
qualsiasi ambiente d'ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle
persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato
il realismo antico"[2].
Auerbach riporta
alcune frasi del liberto Ermerote e trova che il suo linguaggio sia
"quello un po’ becero e snervato d'un mercante cittadino incolto, pieno di
frasi fatte" e, aggiunge, "vi si sente il tono sanguigno con cui
vengono espressi sentimenti vivaci ma triviali"[3].
Giovanna Tocco
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