mercoledì 8 marzo 2017

"Storia linguistica dell’Italia Repubblicana" di Tullio De Mauro. IV parte


De Mauro nota che tra lingue parlate in Europa nel primo millennio, hanno avuto massima persistenza il greco, il basco, le parlate celtiche in Gran Bretagna e quelle della nostra penisola.
“L’Europa linguistica riflette oggi, nel complesso, gli assetti che raggiunse nel tardo Medioevo. L’Italia linguistica del 1946, invece, aveva una configurazione che rifletteva non solo la latinizzazione, realizzatasi molto lentamente, e mai del tutto compiutasi, tra III sec. a. C. e inizi dell’età imperiale, ma anche le condizioni più antiche (…) Una forte e stabilizzata differenziazione etnico-linguistica delle popolazioni caratterizzò l’Italia preromana rispetto a ogni altra area europea. A metà del primo millennio a. C. l’Italia era occupata da popolazioni di assai varia provenienza e inserimento nel territorio, e quindi da una varia selva di idiomi eterogenei, indoeuropei e non indoeuropei, alcuni di più remoto radicamento nel suolo italiano, come l’etrusco e il sardo, altri importati in fasi più recenti da oltre le Alpi e attraverso l’Adriatico e il Mediterraneo centrale come il messapico, il greco, il punico” (p. 25)
Segue un elenco di lingue parlate allora in Italia.

Del resto Leopardi nell’Ottocento continua a considerare la lingua italiana “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” (Zibaldone, 964 e 965).
Per quanto riguarda la lingua greca, più avanti leggiamo “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717).

Ma torniamo a De Mauro e all’Italia della metà del I millennio a. C.: “Il latino era parlato solo dalle popolazioni di una piccola area compresa tra Monti Tiburtini, Colli Albani e foce del Tevere, contornate e incalzate da popolazioni che parlavano etrusco, osco umbro e greco, quest’ultimo portato nel cuore della città di Roma da mercanti. Nell’Italia moderna la sola diretta sopravvivenza di tanti idiomi diversi dal latino è il greco, che nel Medioevo continuò a essere parlato estesamente in Sicilia, nel Sud e nella stessa città di Roma e, secondo una tesi accreditata, sopravviverebbe ancora nelle parlate neogreche della Calabria e del Salento. Per il resto dominano non le dirette sopravvivenze degli idiomi non latini, bensì le continuazioni del latino, o meglio le sopravvivenze di ciò che il latino era andato diventando sulle bocche delle varie popolazioni di diverso idioma (…) Le radici dell’Italia linguistica moderna e del Novecento stanno ancora nell’assetto linguistico dell’Italia alla fine del I millennio a. C. e nella persistenza, per quanto indiretta, della politica linguistica della Romana res publica. Non si intende il presente senza almeno rievocare quelle radici” (p. 26).

La conoscenza del latino amplia sicuramente la visione mentale. A questo proposito, Schopenhauer ha lasciato un’immagine efficace: “L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"[1].

“Roma non impose mai in modo pianificato la sua lingua. E, del resto, anche all’interno del suo più stretto territorio tradizionale non impose mai la norma colta urbana e lasciò che sopravvivesse il sermo rusticus. Entro la stessa Urbe fu tollerato che a diversi livelli sociali avessero corso parlate altre dal latino e al livello più alto fu privilegiato e, almeno dal tempo degli Scipioni e di Catone Censore, perfino idoleggiato il greco. Perciò dalle diverse popolazioni dell’Italia la lingua di Roma fu appresa in tempi e con modalità differenti, trasferendo nelle varianti locali del latino modi fonetici ed elementi lessicali dei preesistenti idiomi locali”. (p. 27)

Nel Satyricon si trova un sermo familiaris che si alterna spesso col sermo plebeius e col sermo rusticus . Il realismo di Petronio lo porta ad attribuire a ogni personaggio il modo di esprimersi del ceto cui appartiene
A proposito di realismo antico Auerbach sostiene che il Satyricon rappresenta la realtà in maniera più ampia e meno stilizzata dei realisti alessandrini, quali Teocrito nelle Siracusane (XV) o Eroda nel lenone (III). " Petronio, " come un realista moderno, pone la sua ambizione artistica nell'imitare senza stilizzazione un qualsiasi ambiente d'ogni giorno e contemporaneo, e nel far parlare alle persone il loro gergo. Con ciò raggiunge il limite estremo a cui sia arrivato il realismo antico"[2].
Auerbach riporta alcune frasi del liberto Ermerote e trova che il suo linguaggio sia "quello un po’ becero e snervato d'un mercante cittadino incolto, pieno di frasi fatte" e, aggiunge, "vi si sente il tono sanguigno con cui vengono espressi sentimenti vivaci ma triviali"[3].





[1] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.
[2] E. Auerbach, Mimesis, pp. 37-38.
[3] E. Auerbach, Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale, p. 32.

1 commento:

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