sabato 11 gennaio 2020

Debrecen. Capitolo 15. L’acquazzone catartico

Lunedì 6 agosto, dopo le ore di lezione, tornai correndo con affanno in collegio dove mi diedi a maneggiare freneticamente la posta degli Italiani sperando di scoprirvi la lettera a lungo bramata e sognata: trovai una cartolina dell’Hetaera Esmeralda e una pur cara di Fulvio,  ma non l’espresso promesso e annunciato da Ifigenia. Sicché la maledissi.
“Aspetta mio espresso” aveva telegrafato la feroce.
Mi aggirai a lungo nel bosco con l’anima cupa e il volto certamente trascolorato dall’angoscia perché quella che occupava il letto mio, quasi sicuramente con un altro uomo e con osceni tripudi, era la sola  inquilina mulier del mio cervello e del  mio cuore oramai vacanti di ogni altra femmina umana, se umana poteva ancora definirsi colei. Né pagava l’affitto, anzi magari subaffittava la dimora mia al nuovo ganzo con cui ballava ogni giorno un turpe trescone profanando il grande letto dei nostri tripudi santi.
Verso le due anche il cielo si rabbuiò e si mise a piovere forte. Tornai nel collegio di corsa. Frugai di nuovo trepidamente tra la posta. Invano. L’acqua cadeva a righe invece che a gocce. Mi sembrava che il tempo si fosse sintonizzato con l’anima mia che mi rigava la faccia di lacrime sentendo la fine dell’amore. Si era alzato un gran vento che scuoteva con violenza alberi e piante: i rami fatti rotolare dalla bufera  sulle finestre chiuse sfregavano i vetri. Le inservienti avevano fatto appena in tempo per evitare il flagello dell’autunno  incipiente. La morte dell’estate non era tranquilla. Le foglie fragili strappate dalle chiome fronzute cadevano nei rigagnoli che scorrevano rapidi sotto i marciapiedi e le trascinavano via lontano dagli alberi dove erano nate, forse dentro il laghetto del ponticello di legno. Pensai alla notte del luglio del 1971 quando ci passai sopra di corsa, con lieto rumore, per correre da Helena che mi aspettava affacciata alla finestra di camera sua illuminata dal chiarore lunare[1]. In seguito a questo ricordo le mi lacrime divennero dolci.
Donne innamorate, non opportuniste, donne che anzi rischiavano molto per fare l’amore con me, non mi erano mancate. Helena però era stata l’amante ottima: la più gratuita di tutte, la più serena, la più lieta. Quella che mi aveva allietato di più. In lei c’era qualche cosa di Dio. “Anche in questo temporale c’è Dio” , pensai
 Stava passando come le foglie, le cose e le persone. Pioveva già meno. Aprii una finestra. Fine dell’afa , odore di terra, profumo di rinnovamento. “Verrà un’altra amante - pensai - più fine, educata, buona, generosa, leale. Così deve essere una persona. Quella là è stanca, inaridita, dura e polverosa come la terra prima di questo acquazzone catartico. Tende solo al successo e non lo raggiungerà mai siccome è priva di immaginazione che è necessaria per ogni risultato. Non è capace di mettersi nei panni degli altri, acciecata com’è da un egoismo feroce.  Senza l’immaginazione non si arriva all’empatia che è necessaria per dare impulso alla vita e prospettive non oscurate dalla chiusura nel proprio angusto recinto.
gianni


[1] In questo blog c’è tutta la storia di Helena

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