sabato 11 gennaio 2020

Umano e disumano. Parte 2


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Seconda parte
della conferenza che terrò nel Liceo classico M. Tondi di San Severo durante la notte di Licei (17 gennaio 2020)

Disumana è la scortesia
 Un individuo simile a Cnemone è quello che impersona La scortesia , il XV dei Caratteri di Teofrasto: " La scortesia (aujqavdeia, parola che implica anche prepotenza e narcisismo) è durezza nel relazionarsi con le parole, e lo scortese è il tipo, se riceve la domanda - dov'è il tale? - , capace di rispondere - non mi dare briga - (pravgmatav moi mh; pavrece)".

Disumana è la misantropia
Disumano allora è "chi non è amichevole con nessuno, chi si tiene lontano da tutti con diffidenza" ne inferisce Snell (Poesia e società,. p. 151) che in una nota cita anche Shakespeare:"He' s opposite to humanity ", è un nemico del genere umano, detto di Apemanto, filosofo senza creanza, in Timone d'Atene (I, 1).

Il misantropo Timone di Atene
Lo stesso Timone diventa misantropo in seguito all’ingratitudine di quanti aveva beneficato: “I am Misanthropos, and hate mankind.
Poi, rivolto ad Alcibiade dice: “for thy part, i do wish thou wert a dog, that I might love thee something”, (IV, 3), per quanto riguarda te, io vorrei che fossi un cane, così che potrei amarti almeno un po’.
 Questo misantropo di Shakespeare ricordato già da Plutarco[1] fa scrivere sulla propria tomba tale epitafio:
« Here lies a wretched corpse of wretched soul bereft:
Seek not my name: a plague consume you wicked caitiffs left!
Here lie I, Timon, who alive, all living men did hate,
Pass by, and curse thy fill, but pass and stay not here thy gait.
 » (V, 4),
Qui giace un misero corpo privato di misera anima: non cercate il mio nome: una pestilenza vi cosumi malvagi codardi superstiti!
 Qui giaccio Timone, io che da vivo odiai tutti gli uomini,
passa e impreca a sazietà, ma vai altrove e non fermare qui il tuo passo!


Disumano è pertanto Cnemone il Dyskolos di Menandro, un uomo che non si adatta a una società di persone civili e cortesi.
Un uomo disumano assai (ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra, 6),
intrattabile (duvskolo" appunto) con tutti, che non ama la gente"(v,7).
Egli, ci informa Pan, "ha sposato una vedova"(14) che aveva già un figlio, Gorgia, e con lei litigava sempre. Poi "gli nasce una bambina: peggio ancora"(19 - 20).
Se Cnemone dunque è un disumano chi è umano secondo Menandro?
 Colui che si adatta ad una società borghese, leggera, cortese priva di precise convinzioni politiche e morali, come suggerisce Snell in Poesia e società “Nel prologo il dio Pan definisce il dyskolos, l’eroe della commedia, un ajpavnqrwpo" a[nqrwpo" (v. 6), un uomo disumano. Che significa uomo? E’ disumano chi non è amichevole con nessuno, chi si tiene lontano da tutti con diffidenza.
 Un'espressione del genere si confà a un personaggio siffatto di Terenzio: Demea degli Adelphoe che dice di sé (866 - 868):
"ego ille agrestis, saevos, tristis, parcus, truculentus, tenax,
duxi uxorem: quam ibi miseriam vidi! Nati filii;
alia cura ", io quel rozzo campagnolo, disumano, tetro, avaro, duro, testardo, ho preso moglie: quale miseria ci ho trovato! Sono nati i figli; altra preoccupazione.
Questa descrizione deriva più precisamente dal 
 fr. 11 Körte. di Menandro:" jEgw; d j a[groiko", ejrgavth", skuqrov" , pikrov", feidwlov"", io villano, lavoratore, arcigno, duro, tirchio.

La solitudine è disumana in una società di uomini umani, ma diventa necessaria nel mondo dove prevale il male

La solitudine del misantropo
Tornando al misantropo, Cnemone vede Sostrato davanti alla porta di casa sua e invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!" ( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, v.169).
Sembra un'anticipazione del monachesimo.
Tuttavia dopo essere caduto in un pozzo e avere avuto bisogno di aiuto da parte del figliastro Gorgia che non era stato trattato bene da lui, il misantropo si ricrede e dichiara che cosa ha imparato dalla disgrazia (713 - 735):
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to; kerdaivnein)[2]. Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)".


La solitudine necessaria

 Il bisogno della solitudine, condannato da Omero a Menandro come disumano, più avanti, con la degenerazione brutale dei rapporti tra gli uomini, con la trasformazione delle persone in "turba ", folla disordinata, feccia o[clo" - diventerà non solo dignitoso ma necessario.
Prendiamo Seneca tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio allora è:"recēde in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiamfuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
Un'eco in Nietzsche: “C'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto per la moltitudine”[3].



[1] Nella Vita di Alcibiade (16) Plutarco racconta che Tivmwn oJ misavnqrwpo~ imbattutosi un giorno nel figlio di Clinia che tornava dall’assemblea popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come era solito fare con gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra e gli disse: “fai bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r au[xei kako;n a{pasi touvtoi~, così accresci di molto il male a tutti questi
[2] Cfr Giasone di Euripide: “Egli insomma "dra'/ ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce la moglie abbandonata, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo. Pasolini chiarisce:" l'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica" P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
Qui l'autore parla del vuoto di Carità dell'Italia degli anni Settanta. Ma riferiamolo alla Medea di Euripide. Il pragmatismo di Giasone si manifesta chiaramente quando il seduttore dichiara alla sua ex moglie di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia, o le famiglie, e senza restrizioni (wJ" , to; men; mevgiston, oijkoi''men kalw'" - kai; mh; spanizoivmeqa), sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono (vv. 559 - 560). Abbiamo già messo in rilievo che Giasone "dra'/ ta; sumforwvtata - ghvma" tuvrannon " (v. 876 - 877) fa quello che è più utile sposando la figlia di un re. Glielo riconosce Medea, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo. Bisogna chiarire che anche questa Medea di Euripide impiega, strumentalmente, la cultura dell'utile che pure la rende infelice, quando blandisce Creonte per ottenere un giorno di permanenza a Corinto onde compiere la sua terribile vendetta.
C'è anche un luogo platonico che tratta il problema. Nel primo libro della Repubblica il sofista Trasimaco, un rappresentante della filosofia di potenza, propugna in forma più diretta, e forse meno ignobile, l'ideologia contenuta nelle parole e nel comportamento di Giasone. Egli, raggomitolatosi come una fiera, si dirige contro Socrate, sostenitore della Giustizia, come se volesse sbranarlo (336b). Quindi afferma che il giusto non è altro che l'utile di chi è più forte:"to; divkaion oujk a[llo ti h] to; tou' kreivttono" sumfevron"(338c).
Cfr. Leopardi, Zibaldone, 1641: “Ma la morale non è altro che convenienza”. Tradotto in termini erotici: l’amore non è altro che l'utile di chi è più forte.
Si può chiamare in causa e inserire in questa categoria della gente guidata dall’utile, pure in campo erotico, anche la Poppea Sabina di Tacito: unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales, XIII, 45), dove si presentasse l'utile, là volgeva la libidine.
Ancora Pasolini: “La parte “negativa” del razionalismo del Centauro è finita: gli dei sono fole, i culti follie, ecc. E’ solo la civiltà agricola che li ha inventati ecc. Adesso occorre sostituire qualcosa alla metafisica; questo qualcosa è il successo terreno. Il successo si ottiene attraverso lo scetticismo e la tecnica.
[3] Ecce homo, Perché sono così accorto, 10 . Del 1888

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