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Il mare amaro e il male della
navigazione tesa al profitto comunque, con ogni mezzo. Condannae della
cultura o piuttosto anticultura priva di carità. Sviluppo senza progresso: Platone
nel Gorgia e Pasolini negli Scritti corsari
La considerazione del mare amaro si
trova già in Omero: nell'Odissea un figlio di Alcinoo,
Laodamante, nota che le fatiche marine hanno messo a dura prova la tempra di
Ulisse:" ouj ga;r
ejgwv gev tiv fhmi kakwvteron a[llo qalavssh" - a[ndra ge sugceu'ai, eij
kai; mavla kartero;" ei[h", (VIII, vv. 138 - 139), io infatti dico che non c'è altro peggiore
del mare per demolire un uomo, anche se è molto forte.
Eppure Odisseo è il re
navigatore, il re di tempeste[1].
Livio Andronico (III sec. a.
C.) traduce i due esametri omerici citati sopra nella sua Odusia con
tre saturni: "Namque nullum peius macerat humanum/quamde mare saevum:
vires cui sunt magnae/ (…) topper confringent importunae undae" (fr.
20 Morel), infatti nulla di peggio tormenta l'uomo che il mare crudele: anche
quello di grandi forze presto spezzeranno le onde contrarie.
Esiodo nelle Opere consiglia
di limitare la navigazione a due periodi brevi (in agosto e in aprile) poiché
:"deino;n d j ejsti; qanei'n meta;
kuvmasin" (v.
687), è terribile morire in mezzo alle onde.
Il mare è indicato anche da Eraclito come
immensa quantità di acqua ostile all'uomo:"qavlassa u{vdwr kaqarwvtaton kai; miarwvtaton,
ijcquvsi me;n povtimon kai; swthvrion, ajnqrwvpoi" de; a[poton kai;
ojlevqrion" (fr.
34 Diano), il mare è l'acqua più pura e la più contaminata, per i pesci è
potabile e li tiene in vita, per gli uomini è imbevibile e letale.
Leopardi con il fuoco critica anche
la navigazione avvalendosi di Orazio:"Orazio (I, Od . 3)
considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come un
ardire tanto contro natura[2], quanto lo
è la navigazione, e l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di
altrettanti mali e morbi ec., di quanto la navigazione; e come altrettanto
colpevole della corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie
umana.(Zibaldone , p. 3646).
La menzionata Ode (I,
3, in sistema asclepiadeo IV) del poeta di Venosa verte sull'ardimento
umano e biasima prima l'invenzione della navigazione, le empie navi che
valicano acque intangibili ("tamen impiae / non tangenda rates
transiliunt vada", I, 3, 23 - 24), quindi (27 - 33) Prometeo,
inventore del fuoco[3]: "audax
Iapeti genus / ignem fraude mala gentibus intulit; / post ignem aetheria domo /
subductum macies et nova febrium / terris incubuit cohors / semotique prius
tarda necessitas / leti corripuit gradum ", l'audace prole di
Giàpeto, portò con frode malvagia il fuoco tra i popoli; dopo che il fuoco fu
sottratto dalla sede celeste, la consunzione e una nuova schiera di febbri
piombò sulla terra, e la Necessità, prima lenta, affrettò il passo della morte
lontana.
La Necessità che è la forza
suprema dunque diviene incalzante e urgente.
Infine Orazio ricorda Dedalo
che volò "pennis non homini datis" (v. 35) con penne non
concesse all'uomo, ed Ercole che irruppe vivo nell'Acheronte. Dunque:"nil
mortalibus ardui est;/caelum ipsum petimus stultitia neque/per nostrum patimur
scelus/iracunda Iovem ponere fulmina" (Odi, I, 3, vv. 37 - 40), niente
è difficile per i mortali; attacchiamo il cielo stesso nella nostra follia, e
con i nostri delitti impediamo a Giove di deporre i fulmini dell'ira.
I soldati di Alessandro prima della
battaglia di Arbela (ottobre 331) si lamentavano, molto realisticamente,
dicendo: “in unius hominis iactationem tot milium sanguinem impendi”[4] per la
vanagloria di un solo uomo si spende il sangue di tante migliaia. Il
conquistatore macedone era uno che rinnegava il padre Filippo, e “caelum
vanis cogitationibus petere”, mirava al cielo con vane fantasie.
La navigazione è uno degli aspetti
della violenza umana nei confronti della natura, un ardimento piena di rischi,
come fa notare Sofocle nel primo Stasimo dell'Antigone. Vediamone la
prima strofe e la prima antistrofe: "Molte sono le cose inquietanti e nessuna/è più
inquietante dell'uomo/ questo prodigio anche al di là del mare/canuto con
l'austro tempestoso/procede (cwrei', v. 336), passando sotto/i flutti
gonfi che si spalancano intorno, e tra le divinità,/la suprema, la Terra,/che
non si consuma, che non si stanca, lui cerca di affaticare/quando vengono
girati gli aratri, anno per anno/rivoltandola con la stirpe equina./ E la razza
degli uccelli dalla mente/alata, circondando con maglie/di reti
intrecciate/cattura, e le stirpi delle fiere selvatiche/e la progenie
sprofondata nel mare,/l'uomo che sa pensare, e si impossessa/con i suoi mezzi
della bestia/che dimora nei campi, che vaga sui monti, e il cavallo/dalla
cervice crinita trascina sotto il giogo che cinge il collo/e il montano,
infaticabile toro" (vv. 332 - 352).
Sono tutti i “benefici” vantati da
Prometeo (cfr. Prometeo incatenato vv. 459 sgg.).
Sentiamo il commento di Heidegger: il
coro "canta l'irruzione prorompente sull'abisso ondoso e senza fondo,
l'abbandono della terra ferma. La partenza non avviene in una calma serenità di
acqua scintillante, ma nel bel mezzo di una tempesta invernale (…) cwrei', ossia,
egli abbandona il suo luogo, si dis - loca e si espone alla forza soverchiante,
senza dimora, del flutto marino. La parola cwrei' si erge, nella strutturazione del verso, come una colonna. Ma,
intrisecamente connessa a questa partenza violenta contro la predominanza del
mare, si trova l'irruzione incessante nell'indistruttibile dominio della terra.
Facciamo bene attenzione: la terra rappresenta qui la suprema divinità. Col far
- violenza l'uomo disturba la calma della crescita, il nutricare, il generare
di questa infaticabile. Nel caso della terra, il predominante non è colui che
domina con la ferocia autodistruttiva, ma colei che senza pena né fatica porta
a maturazione ed elargisce con la tranquilla superiorità di una grande
ricchezza, l'inesauribile librantesi al di sopra di ogni sforzo. In tale
dominio irrompe colui che violenta: anno per anno la dirompe con l'aratro, e
coinvolge l'infaticabile nell'agitazione del proprio sforzo"[5].
Il topos dell’antinavigazione
procede con Lucrezio il quale dà un'immagine composita dell'età più antica: allora la vita
degli uomini era dura assai, ma le guerre non distruggevano in un sol giorno
molte miglia di uomini schierati, né c'era la morte per acqua marina:"nec
poterat quemquam placidi pellacia ponti/subdola pellicere [6] in
fraudem ridentibus undis./Improba navigii ratio tum caeca iacebat "(V, 1004 - 1006), né la
seduzione subdola del mare in bonaccia poteva sedurre alcuno con il sorriso
delle onde[7]. Allora la
detestabile arte del navigare giaceva sconosciuta.
Virgilio nella IV ecloga, dove
annuncia il ritorno dell'età dell'oro, mette la navigazione, con la guerra e
l'agricoltura, tra le attività perfide e dure a morire dell'età ferrea: anche
quando l'uva penderà rossa dai rovi incolti e le querce suderanno mieli
rugiadosi "pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudis,/quae temptare
Thetin ratibus, quae cingere muris/oppida, quae iubeant telluri infindere
sulcos" (vv. 31 - 33), tuttavia sotto resteranno poche tracce dell'antica
perfidia, quelle che spingono a tentare il mare con le navi, a cingere di mura
le fortezze, a scavare solchi nella terra.
Non meno negativamente considera la
traversata marina Properzio il quale anzi impreca contro l'inventore
di quel viaggiare sull'acqua che lo ha portato lontano da Cinzia:"A
pereat, quicumque ratis et vela paravit/primus et invito gurgite fecit iter "
(I, 17, 13 - 14), ah, perisca chiunque per primo costruì le navi e le vele, e
si aprì il cammino tra i gorghi riluttanti. E’ il topos dell’imprecazione
contro l’inventor di un’attività.
Nel primo libro delle Metamorfosi
Ovidio afferma che durante l'età dell'oro non c'erano le navi che
solcavano i mari:"nullaque mortales praeter sua litora
norant" (v. 96), i mortali non conoscevano altri lidi che i propri.
Un’eco di questa maledizione
si trova in El burlador de Sevilla (1630) di Tirso
de Molina, il padre di tutti i Don Giovanni. Il servo di Don Juan, Catalinòn,
in seguito a un naufragio, si salva dalla morte per acqua e, portando in
braccio il padrone semivivo, dice: “Maledetto chi per primo/ha piantato pini in
mare/e con un fragile legno/ha sfidato le sue rotte!... Maledetto sia Giasone/
e maledetto anche Tifi!” (I, 11).
Il secondo coro della Medea di
Seneca maledice, in dimetri anapestici, la navigazione come attività
troppo audace per l'uomo: “Audax nimium[8], qui
freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga
videns/animam levibus credidit auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit
tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto” (vv. 301 - 308), audace
troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e
vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti e fendendo
gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole,
guidato sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte
Il primo a violare il mare è
stato, con gli altri argonauti, Giasone la cui audacia, e la successiva
perfidia nei confronti di Medea, ha trovato degni antagonisti nei freta
perfida.
L'inventore però rimane Prometeo.
"Ciò che colpisce
immediatamente il lettore del secondo coro (vv. 301 - 379) è il ritmo temporale
che lo scandisce, la diastole e la sistole, mi si passi l'immagine, tra un
passato positivo e un presente negativo, di cui la spedizione argonautica
rappresenta il diaframma. Il coro si apre con la presentazione (vv. 301 - 308)
del primo navigatore che, nimium audax (superfluo ricordare la
connotazione negativa di audax intensificata dal nimium)
per avere affrontato con la fragilità della nave i perfida freta (
una fragilità che Seneca esprime anche nel gioco fonosimbolico delle
allitterazioni e, soprattutto, nella protratta iterazione della "r")
si è fatto reo di aver infranto il limes tra la vita e la
morte divenuto in tal modo nimium gracilis"[9].
"Alla breve presentazione
dell'audacia del primo navigatore segue la descrizione (vv. 309 - 317)
del tempus precedente come tempo di pura contemplazione o
comunque di non strumentalizzazione del cosmo - starei per dire dello spazio - da
parte dell'uomo: “nondum quisquam sidera norat,/stellisque quibus pingitur
aether/non erat usus”[10]. Nessuno
ancora conosceva i nomi degli astri né faceva uso delle stelle di cui è dipinta
la volta celeste.
La cultura pragmatica arriva a
strumentalizzare tutto.
"L'interpretazione puramente
pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva in conclusione da questa
assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e
pratica"[11].
Seneca contrappone l'età
preargonautica a quella che viene dopo l’ardire di Tifi, il pilota della nave
Argo:"Ausus Tiphis pandere vasto/ carbǎsa ponto legesque novas/
scribere ventis" (vv. 318 - 320), Tifi osò distendere le vele sul
vasto mare e dettare leggi nuove ai venti. Torna il biasimo dell'audacia poiché
questa impresa "che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo"[12] costituisce
un aspetto di quello
"sviluppo" quale "fatto pragmatico ed economico" senza
"progresso" come "nozione ideale" di cui parla Pasolini
negli Scritti corsari (p.220), o un ingrassamento senza grandezza,
come quello che Platone nel Gorgia attribuisce all'azione dei
politici Ateniesi i quali:" in effetti senza preoccuparsi della temperanza
e della giustizia (a[neu ga;r
swfrosuvnh" kai; dikaiosuvnh") hanno riempito la città di porti, di arsenali, di
mura, di contributi e di altre sciocchezze del genere (toiouvtwn fluariw'n ejmpeplhvkasi th;n povlin, 519a).
Si veda un ancora più esplicito
svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di
Diotima del Simposio platonico:"kai; oJ me;n
peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti
sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva" tinav",
bavnauso""
(203a), chi è sapiente in tali rapporti[13] è un
uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o
di certi mestieri, è un facchino.
Seneca ripete questo concetto
quando dissente (non concesserim) da questa affermazione di Posidonio:
“ artes quidem a philosophia inventas quibus in cotidiano vita utitur”
(Ep. 90, 7): la filosofia ha inventato gli strumenti che la vita
utilizza ogni giorno.
Quindi il filosofo di Cordova
replica a Posidonio e lo confuta: “Quid ais? Philosophia
homines docuit habere clavem et seram? Quid aliud erat avaritiae signum dare?” (90, 8), che cosa dici? La Filosofia
ha insegnato agli uomini a tenere chiavi e catenacci? Che cos’altro sarebbe
stato se non dare un’insegna zll’avarizia?
Insomma: “omnia ista sagacitas
hominum, non sapientia invenit ” (90, 11) tutto questo lo ha inventato
il fiuto degli uomini, non la sapienza.
Nel Menesseno Platone chiarisce
il disvalore della scienza separata dalla giustizia:"pa'sav te ejpisthvmh cwrizomevnh dikaiosuvnh"
kai; th'" a[llh" ajreth'" panourgiva, ouj sofiva faivnetai" (247), tutta la scienza separata
dalla giustizia e dalle altre virtù, si vede che è malizia, non sapienza.
Il secondo coro della Medea di
Seneca dunque situa l'età edenica nel passato antecedente l'impresa di
Argo:"Candida nostri saecula patres/videre, procul fraude remota./Sua
quisque piger litora tangens,/patrioque senex factus in arvo,/parvo dives, nisi
quas tulerat/natale solum, non norat opes./Bene dissaepti foedera[14] mundi[15]/traxit in unum[16] Thessala pinus,/iussitque pati verbera pontum;/partemque metus fieri
nostri/mare sepositum" (vv.
329 - 339), secoli immacolati videro i nostri padri, quando era tenuta lontano
la frode. Ciascuno tenendo pigro i suoi lidi, e divenuto vecchio nel campo
paterno, ricco con poco, non conosceva ricchezze se non quelle prodotte dal
suolo natale. La nave Tessala unificò le parti del cosmo ben separato da un
recinto di leggi, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e che il
mare lontano divenisse parte della nostra paura.
L' u{bri" di Tifi e Giasone è prefigurata da quella di
Prometeo e imitata da quella di Serse, poi da Alessandro Magno a pueritia latro gentiumque
vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori
esse cunctis mortalibus, oblitus non ferocissima tantum, sed ignavissima quoque
animalia timeri ob malum virus" (Seneca, De beneficiis [17] I, 13, 3).
Il terzo coro della Medea di
Seneca chiede venia per Giasone, ma Nettuno è furioso perché sono stati
spezzati i sacrosanti vincoli del mondo.
Il consiglio è: "vade, qua tutum populo priori;/rumpe
nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! " (vv. 604 - 606), procedi per dove il
cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare con violenza le
sacrosante regole del mondo. E’ la conclusione della settima e ultima strofa
saffica del terzo coro.
Infatti i profanatori del mare sono morti
male, come Fetonte che ha cercato di violentare il cielo. Gli Argonauti hanno
prima devastato i boschi del Pelio, poi hanno solcato il pelago per
impossessarsi dell'oro, ma: “ exigit poenas mare provocatum” (Medea,
v. 616).
Il mare sfidato che la fa pagare ai
provocatori si trova anche nella Pharsalia di Lucano:"Inde
lacessitum primo mare, cum rudis Argo/miscuit ignotas temerato litore gentes/primaque
cum ventis pelagique furentibus undis/composuit mortale genus, fatisque per
illam/accessit mors una ratem" (III, 193 - 197), di qui[18] il
mare per la prima volta provocato, quando l'inesperta Argo mescolò genti che
non si conoscevano sulla costa profanata, e per prima mise la razza umana alle
prese con i venti e con le onde furiose del mare, e una morte attraverso quella
nave si aggiunse ai fati.
Viene condannata la confusione
conseguente alla negazione del principium individuationis. Ancora
l' u{bri" di Serse.
Il coro chiede agli dèi di graziare
Giasone che è partito iussus ( Medea, v. 669). E'
la mancanza di entusiasmo per l'impresa, l' ajmhcaniva delle Argonautiche. Nel poema di
Apollonio Rodio Giasone è qualificato come ajmhvcano" (I,
460).
Che il marinaio sia come portato, se
non addirittura predestinato, a morire in mare, lo dichiara fatalisticamente
Mena Malavoglia nel romanzo di Verga :"Il mare è amaro, - ripeteva,
- ed il marinaio muore in mare"[19].
giovanni ghiselli
[1] Così
lo chiama D’Annunzio: “odimi, o Re di tempeste!” in Laus vitae del
1903. Così invece lo ridicolizza Gozzano: “Il Re di Tempeste era un tale / che
diede col vivere scempio / un ben deplorevole esempio / d’infedeltà maritale, /
che visse a bordo d’un yacht / toccando tra liete brigate / le
spiagge più frequentate / dalle famose cocottes” (L’ipotesi, del 1908,
vv. 111 - 118).
[2] Tovlma para; fuvsin, “tovlma
me;n ga;r ajlovgisto~”si porebbe
dire con Tucidide (III, 82, 4)..
[3]Oltre che
delle navi: i cocchi dalle ali di lino del Prometeo
incatenato di Eschilo (v. 468).
[4] Curzio
Rufo, Historiae Alexandri Magni, 4, 10, 3.
[5] M.
Heidegger, Introduzione alla metafisica, p. 162.
[6]Si noti
l'allitterazione con la p che sembra preludere all'esplosione della
successiva tempesta marina.
[7]Traduco “il
sorriso delle onde”, come del resto ha già fatto Luca Canali , poiché a parer
mio l'espressione di Lucrezio risente di quella eschilèa:" pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon gevlasma" (Prometeo incatenato ,
89 - 90), innumerevole sorriso delle onde marine.
[8] Ancora
una tovlma ajlovgisto~.
[9] G.
Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del
drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 427.
[10] G.
Biondi, ibidem, p. 427. Sono citati i vv. 309 - 311 del secondo
coro della Medea.
[11] P.P.
Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[12] Dante, Paradiso,
XXXIII, 96.
[13] Quelli tra gli uomini e gli dèi.
[14] Antonimo
di legesque novas del v. 319.
[15] Ossia kovsmo", antonimo di cavo".
[16] Con regressione
nel caos.
[17] In
sette libri completati nel 64 d. C.
[18] Da
Iolco, patria di Giasone.
[19]I Malavoglia , p. 98.
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