NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 29 gennaio 2021

La nostra Costituzione e quella dell'Atene di Pericle

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Metto in rilievo  alcuni articoli  della nostra Costituzione che mi stanno particolarmente a cuore.

Ne indico la prefigurazione nella politeiva, la costituzione, cioè l’anima della polis ateniese, che leggiamo descritta nella Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide. Ne indicherò dei prodromi anche in alcune tragedie greche e nel Menesseno di Platone.

 

Articolo 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. 

Articolo 3 : “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di condizioni personali e sociali”.

Comma B. “E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

 

Commento questo articolo con alcune delle parole che Tucidide attribuisce a Pericle ricordato nell’atto di pronunciare il logos epitafios ossia il discorso funebre sui caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso (431 a. C.)

 

“In effetti ci avvaliamo di una costituzione-(Crwvmeqa ga;r politeiva/)  che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio (paravdeigma) ad alcuni piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia (dhmokrativa kevklhtai), però secondo le leggi, riguardo alle controversie private, c’è una condizione di uguaglianza per tutti (pa`si to; i[son), mentre secondo la reputazione, per come ciascuno  viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza più che per il suo valore, viene preferito alle cariche pubbliche, né, d’altra parte secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan), se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai) (Storie, II,  37, 1) .

 

In questa Atene, sia pure idealizzata, non troviamo il clientelismo che a Roma era già codificato nel codice delle XII tavole della metà dl V secolo a. C. e che ha una sua continuità nelle raccomandazioni e nella mafia. 


Aggiungo il  Menesseno di Platone dove Aspasia dice che nessuno è stato escluso per povertà (peniva/), né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore (238d)

Sarebbe stata Aspasia a suggerire  il discorso sui morti a Pericle.

“La costituzione, se è buona, alleva uomini valorosi, se è cattiva invece dei malvagi. Quella che chiamano democrazia  di fatto è un’aristocrazia con il consenso della massa (e[sti de; th̃/ ajlhqeiva/ metj eujdoxivaς plhvqouς ajristokrativa (238d).

Il popolo assegna cariche e potere a chi gli sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei padri, né per motivi opposti (oujde; toĩς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo limite (ei|ς o{roς): ha il potere e le cariche (kratei` kai; a[rcei)  chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς ei\nai (238d).

Aristocrazia non è un fatto di sangue ma di educazione alta che dovrebbe essere garantita a tutti.   

La nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà di parola

Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

Articolo 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".

 

Vediamo la libertà di parola dei Greci

"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[1]. 

Nello Ione[2] di Euripide il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[3] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).

 Analogo concetto si trova nelle Fenicie[4] quando  Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.

Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa. 

 

L’articolo 10 della nostra Costituzione dice: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Non è ammessa l’estradizione per motivi politici”. 

 Atene è la polis che  accoglie i bisognosi di aiuto.

La tragedia elabora il mito di Atene e mette in rilievo l’’accoglienza dei supplici da parte della polis ateniese.

Per esempio negli Eraclidi[5], Demofonte, figlio di Teseo e di Fedra, accoglie i supplici perseguitati da Euristeo. Nella parodo, il coro dice che è empio per una città trascurare la supplice preghiera di stranieri (107-108)

La terra ateniese da sempre vuole contribuire con la giustizia ad aiutare chi è privo di risorse: “ajei; poq j h{de gai`a toi`ς ajmhcavnoiς su;n tw`/ dikaivw/ bouvletai proswfelei`n” (329-330).

 

Nelle Supplici[6] di Euripide, Etra, la madre di Teseo, incoraggia il figlio a soccorrere i morti e le donne che hanno bisogno di aiuto. La loro patria, Atene, si ingrandisce nei travagli (“ ejn ga;r toi'" povnoi" au[xetai, v. 323). Alla fine del primo stasimo  il coro delle donne supplici che hanno perduto i loro cari  prega la città di Pallade di soccorrere le madri: "suv toi sevbei" divkan, to; d  j h|sson ajdikiva/-nevmei", dustuch' t j ajei; pavnta rJuvh/ " ( vv. 379-380), tu onori la giustizia, tu non dai spazio all'ingiustizia, e proteggi i disgraziati. 

Nell’ Edipo a Colono [7]di Sofocle, il parrcicida incestuoso,  il vagabondo cieco cacciato da Tebe, la città anti democratica, l’anti-polis, viene accolto da Teseo re di Atene, il paradigma mitico di Pericle. Allora Edipo  riconosce che Atene è la polis più pia, la sola capace di aiutare lo straniero maltrattato (266-267). 

Voglio sottolineare ancora una frase dell'epitafio redatto da Tucidide poiché mi sembra emblematica non solo dell'Atene di Pericle ma di tutta la cultura greca, anzi di tutta la migliore cultura europea:"filokalou'mevn te ga;r met  j eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva""(II, 40, 1), amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.

 

Concludo tornando alla nostra Costituzione

 Articolo 9 “La repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”.

 

giovanni ghiselli

  



[1] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.

[2] Del 411 a. C.

[3] Forma poetica equivalente a kevkthtai.

[4]Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.

[5] 427 circa

[6] Del 422 a. C., circa

[7] E’ l’ultima tragedia di sofocle morto più che novantenne nel 406.

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