martedì 12 gennaio 2021

Sofocle. 7

De Morgan, Deianira
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Deianira: la moglie trascurata

 

Ora presento alcuni aspetti delle Trachinie[1], la tragedia della moglie che, trascurata e vilipesa, prova a difendersi con un rimedio letale per se stessa e per il marito. 

Deianira entra in scena nelle Trachinie dicendo: "esiste un antico detto ("Lovgo" me;n e[st j ajrcai'o"") diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva" (Trachinie, vv. 1 - 3)

 La Nutrice della donna afferma addirittura che è sconsiderato (mavtaiovv" ejstin), v. 945 chi conta su due giorni o anche più: infatti non c'è il domani se prima uno non ha passato l'oggi[2].

Nelle Trachinie Deianira è la moglie infelice, sposa dell'infedele Eracle. Sin da ragazza, quando abitava con il padre, ebbe una dolorosissima paura delle nozze (v. 7 - 8). Infatti ricorda: "Mnhsth;r ga;r h\n moi potamov", jAcelw'/on levgw" (v. 9), il mio pretendente era un fiume, dico l'Acheloo. Insomma era corteggiata da un mostro.

 

 "Deianira appartiene ancora, in qualche modo, al regno dei mostri: è stata richiesta in sposa da uno di essi, desiderata da un altro[3], che l'ha toccata, che si confida con lei e ne fa una sua complice. E nella lotta contro Acheloo, Eracle ha fattezze ferine. Da questo bestiario, che ha conservato in sé come orrore e come fremito, Deianira non potrà uscire"[4]. La lotta da cui Eracle esce vincente è un fragore di mani, di archi di corna taurine insieme confuse (Trachinie , vv. 517 - 518).

La Deianira delle Heroides[5] di Ovidio, lontana da Eracle occupato a inseguire terribili fiere, è ossessionata dal pensiero dei mostri con i quali il marito deve lottare: "inter serpentes aprosque avidosque leones/iactor et haesuros terna per ora canes " (IX, 39 - 40), mi aggiro tra serpenti e cinghiali e leoni bramosi, e cani[6] pronti ad attaccarsi con tre bocche. Senza contare gli amori con le straniere: "peregrinos addis amores "(v. 49) 

"Chi lotta coi mostri deve guardarsi dal diventare un mostro anche lui. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te"[7].

 

All'inizio del dramma , la moglie lasciata sola da quindici mesi, a Trachis, in Tessaglia, lamenta l'assenteismo coniugale di Eracle il quale, come eroe, è impegnatissimo, ma come marito si comporta alla pari di un colono che, avendo preso un campo lontano (a[rouran e[ktopon labwvn, v. 32) va a vederlo solo un paio di volte all'anno, una quando semina e una quando miete:"speivrwn movnon prosei'de kajxamw'n[8] a{pax" (v.33). Questa volta però l’assenza è più lunga.

 

La donna trascurata dunque si identifica con il campo e il marito con il contadino che lo lavora e lo semina.

 

 Può essere interessante notare che Pascoli in Lavandare di Myricae usa un simbolismo opposto: l'abbandonata paragona se stessa a "un aratro senza buoi" che resta "nel campo mezzo grigio e mezzo nero" e "pare/dimenticato, tra il vapor leggiero".

Anche qui del resto un uomo si è dileguato lasciando la donna sola e desolata:"quando partisti, come son rimasta!/come l'aratro in mezzo alla maggese".

In letteratura è ricorrente l'identificazione della donna con il campo arato da una parte e dell'uomo con l’aratore e seminatore dall'altra: un tovpo" dunque che Pascoli ha utilizzato ribaltandone i termini.

 

 Pure Eracle dunque è stato un pretendente (mnhsthvr) mostro almeno dal punto di vista mentale, poiché ha dimenticato Deianira. Il mnhsthvr compiuto infatti deve essere dotato di memoria, mnhvmh , che deriva dalla medesima radice mnh - /mna , come pure mnavomai, "penso", e quindi il pretendente non può scordare la donna che corteggia, mentre l'eroe della stirpe dorica utilizza la sua femmina come animale riproduttivo, anzi come a[roura, terra arabile , quindi la dimentica. Pure Teseo è immemor [9] di Arianna nel carme 64 (v. 58) di Catullo e deve pagare cara la sua smemoratezza.

 

M. Bettini fa notare che sussiste un segreto legame "fra amnesia da un lato, e morte dall'altro". Quindi fa l'esempio di Orfeo - Euridice e quello di Teseo - Arianna.

"Quando Orfeo, uscendo dagli Inferi, si volge a guardare verso Euridice, violando così la prescrizione di Proserpina, egli viene sopraffatto proprio da un accesso di amnesia (immemor[10]). In quel preciso momento si ode per tre volte rimbombare il lago Averno, ed Euridice è nuovamente inghiottita dal regno degli inferi.

La dimenticanza di Orfeo ha chiamato la morte dell'amata. E' come se Orfeo, dimenticando, avesse resuscitato la condizione di perenne oblio in cui Euridice giaceva fino al momento della sua insperata liberazione.

Anche il racconto di Arianna abbandonata esplora, nel finale, la medesima connessione simbolica fra amnesia e morte. Ormai sopraffatta dalla sua disgrazia, la fanciulla chiede alle Eumenidi che, con la medesima mens con cui Teseo l'ha lasciata sull'isola deserta, il giovane funesti anche se stesso e i suoi[11]. Oscure minacce di una donna tradita e prossima alla fine. Ma qual era mai questa mens, lo "stato d'animo" con cui Teseo l'aveva abbandonata? L'oblio, la facile dimenticanza del traditore[12]. Per questo sarà ancora la dimenticanza a provocare la morte del vecchio Egeo, padre dell'eroe. Costui aveva infatti chiesto al figlio di issare al suo ritorno la vela bianca, come segno del successo dell'impresa e dello scampato pericolo. Ma Teseo, che fino a quel momento aveva ricordato tutto ciò constanti mente, con "solida memoria", adesso ha la mens "avvolta da cieca caligine" e oblito (…) pectore, "dimentico nell'animo" di issare la bianca vela, povoca così la morte del vecchio, che si lascia cadere giù dalle rupi[13]. Di nuovo amnesia e morte si richiamano tra loro"[14].

 

La Deianira di Sofocle distingue la condizione della ragazza che nelle gioie solleva una vita senza fatica ("hJdonai'" a[mocqon ejxaivrei bivon", v. 147), dalla donna sposata, quell'essere infelice che stiamo trattando, che nelle notti si carica di affanni temendo per il marito o per i figli (" [htoi pro;" ajndro;" h] tevknwn foboumevnh " , v. 150). Infatti, dormendo sola nel letto coniugale, questa moglie desolata balza su dal sonno in preda alla paura, tremante per il terrore (vv. 175 - 176).

Nella Parodo, il Coro prega Elio, perché annunzi dove si trovi Eracle, invocandolo con queste parole "kratisteuvwn kat j o[mma" (v. 102), tu che superi tutti con il tuo sguardo, che lo scoliaste interpreta:" w\ nikw'n pavnta" tou;" qeou;" kata; to; ojptikovn", tu che vinci tutti gli dèi nel potere visivo. E’ una delle tante espressioni del culto del sole[15].

Nel secondo episodio Deianira esprime un desiderio: "kaka;" de; tovlma" mhvt j ejpistaivmhn ejgwv - mhvt' ejkmavqoimi, tav" te tolmwvsa" stugw' " (vv.582 - 583), audacie cattive non vorrei conoscerle, né impararle, le temerarie hanno il mio odio.

Ella tuttavia pensa al chitone intriso del sangue di Nesso che dovrebbe restituirle l'amore di Eracle. Questo presunto rimedio è l'extrema ratio per sottrarre il marito alla giovane, e vincente, rivale Iole con la quale la sposa matura deve condividere il letto in attesa di un abbraccio (vv. 539 - 540). Deianira esasperata ricorre a tale audacia poiché ha paura:" vedo una gioventù che procede avanti, e una che tramonta: da quella l'occhio ama cogliere il fiore, da questa ritira il piede. Io temo dunque che Eracle sia chiamato sposo mio, ma l'uomo della più giovane (vv. 547 - 551).

Deianira oramai “era un fiore di ieri”[16].

Il Coro di donne di Trachis si augura di veder giungere Eracle panivvvvmero" (v. 660) pieno di desiderio grazie all'unzione ricevuta.

Comunque le audacie cattive non pagano: Deianira si uccide ed Eracle muore straziato dal dono funesto.

“La cultura razionalistica viene a contatto con la cultura magico - primitiva e ne resta soccombente (Deianira nelle Trachinie di Sofocle)”[17].

 

 Voglio evidenziare alcuni particolari topici che possono colpire lo studente, o lo spettatore del dramma.

Il primo è che i mostri non muoiono mai del tutto; spesso anche dopo essere morti uccidono i vivi. Se ne accorge Eracle quando muore per la tunica di Nesso: "ora quella belva, il Centauro, come era stato predetto, così ha ammazzato, da morto, me vivo" (Trachinie, vv. 1162 - 1163).

  

Un locus analogo si trova nell’Oedipus di Seneca dove Tebe soffre il flagello della peste, pur dopo la sconfitta della Sfinge: “Ille, ille dirus callidi monstri cinis/in nos rebellat; illa nunc Thebas lues/perempta perdit " (vv. 106 - 108), proprio quella cenere tremenda del mostro scaltro riprende la guerra contro di noi: ora quella peste ammazzata uccide Tebe, lamenta Edipo mentre Giocasta cerca di incoraggiarlo.

 

La luce del sole disfa le cose cattive

La luce del sole significa salvezza: un raggio solare distrugge il bioccolo che, intriso di veleno, ha attoscato la tunica mandata in dono a Eracle da Deianira (Trachinie, vv. 697 sgg.). Il sole disfa le cose cattive.

Le azioni cattive degli uomini viceversa offendono la luce mentre la sua fonte santa, il Sole immagine visibile della Mente dell’Universo si incupisce e si abbuia.

 

Viceversa il male che gli uomini fanno affligge il sole e la sua luce

 

A questo proposito cito i primi versi dell’Oedipus: “Iam nocte Titan dubius expulsa redit,/et nube moestum squalida exoritur iubar, /lumenque flamma triste luctifica gerens/prospiciet avida peste solatas domos,/stragemque, quam nox fecit, ostendet dies " (vv. 1 - 5), già, cacciata la notte, torna un Titano incerto, e il suo splendore spunta cupo da una nuvola sporca, e, portando una luce afflitta con fiamma luttuosa, osserverà le case desolate dall'avida peste, e la strage che la notte ha compiuto la farà vedere il giorno.

 Il sole incerto dallo splendore cupo (moestum iubar), la luce afflitta (lumen triste) e la fiamma luttuosa (flamma luctifica) significa il capovolgimento della natura. La luce che vivifica e rallegra è capovolta a fiaccola mortuaria che mette in mostra una strage.

 

Infine metto in rilievo un aspetto nobile dell’umanità dolente di Deianira la quale prova una compassione piena di spavento (oi\kto~ deinov" , v. 298) vedendo le ragazze di Ecalia porta te schiave da Eracle e pensando ai mutamenti della sorte, anche della propria, certo, ma quella che suscita in lei la pietà più grande è la splendidissima Iole poiché le sembra l'unica che abbia coscienza del suo stato (vv. 311 - 312).

 

Anche Odisseo nell'Aiace prova compassione davanti alla rovina del nemico poiché l'eroe impazzito è aggiogato da un cattivo acciecamento, e perché il suo destino fa pensare a quello di tutti noi viventi, che siamo solo fantasmi o muta ombra (vv. 121 - 126).

 

 

 



[1] Databile fra il 438 e il 429

[2] Cfr. la scheda Imprevedibilità della vita umana situata dopo il v. 1417 della Medea

[3] Il centauro Nesso.

[4]U. Albini, Interpretazioni teatrali , Le Monnier, Firenze, 1972, p. 59.

[5]Sono lettere d'amore. in distici elegiaci,di donne amanti di eroi, e altre lettere di uomini a donne del mito con le risposte. Il primo gruppo ( epistole I - XV) uscì secondo alcuni attorno al 15 a. C. , fra la prima (20a. C.) e la seconda edizione degli Amores (1 a. C.). Altri abbassano la data fino al 5 a. C. Il secondo gruppo di epistole doppie ( XVI - XXI) fu composto poco prima dell'esilio (tra il 4 e l'8 d. C.). Il metro è il distico elegiaco. 

[6]Come Cerbero, il cane di Ades, dal ringhio metallico.

[7] Nietzsche, Di là dal bene e dal male (del 1875), Aforismi e Interludi, 146

[8] Crasi di kai; ejxamw'n.

[9] "La radice deriva dall'indoeuropeo *mn - che ha dato come esito in greco mna - >mnh - , in latino men - … Nel verbo mimnhvskw la radice mnh - presenta raddoppiamento" (G. Ugolini, Lexis, p. 315:

[10] Virgilio, Georgica, 4, 488 sgg.

[11] Catullo, Carmina, 64, 200 sgg.

[12] Cfr. v. 248:"qualem Minoidi luctum/obtulerat mente immemori".

[13] Ibid., vv. 208 sgg.

[14] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 35.

[15] Cfr. la scheda successiva al v. 352 della Medea.

[16] G. G. Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 213.

[17] V. Di Benedetto (introduzione di) Eschilo, Orestea, p. 12.

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