Fabrizio de Andrè
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Critiche agli dei nelle Troiane, nell’ Eracle,
nell’Andromaca. Sofocle misura la morale con la religione, Euripide
invece la religione con la morale.
Per quanto riguarda l’empietà di Euripide troppo spesso denunciata, è vero
che il drammaturgo, fino alle Baccanti , critica la religione
tradizionale, ma questo non toglie che in certi momenti, la consideri con
nostalgia.
Questa però non ha la forza di portarlo alla fede nella bontà degli antichi
dèi e nella giustizia cosmica, dopo quello che ha visto nella storia degli
uomini: "Certo il pensiero degli dèi, quando mi entra nell'anima, allevia molto
gli affanni; e sebbene trattenga con la speranza una qualche capacità di
comprensione, ne vengo abbandonato quando volgo lo sguardo alle sorti e alle
azioni dei mortali: tutto muta da una parte o da un’altra e cambia sempre la
vita degli uomini in continuo movimento ", canta il semicoro dei cacciatori
compagni di Ippolito che si alternano alle donne di Trezene nel terzo Stasimo
dell'Ippolito (vv.
1102 - 1106).
Indubbiamente la sua religiosità è diversa da quella di Eschilo, e ancora
più da quella di Sofocle che dei tre è il meno problematico dal punto di vista
della devozione la quale impone, per esempio, di eseguire le prescrizioni di
Apollo senza discutere. Infatti i fratelli matricidi della sua Elettra
compiono gli ordini di Febo senza dubbi prima, né rimorsi dopo, mentre l'Oreste
di Eschilo è perseguitato dalle Erinni come abbiamo visto, e quello di Euripide
tra un accesso di dolore e un altro dice:" biasimo il dio tortuoso che
dopo avermi indotto all'opera più maledetta che ci sia, con le parole mi
confortò, con le azioni no ( Oreste , vv. 285 - 287).
Più avanti comunque Oreste riconosce l’oggettiva sottomissione degli uomini
a potenze che li sovrastano: "noi siamo asserviti agli dèi, qualsiasi cosa
siano mai gli dèi" (Oreste, v. 418). Una dichiarazione di
malinconica impotenza[1].
Non che gli uomini siano migliori del resto:" non vedi? siamo
circondati da tutte le parti da guardie armate" (Oreste, v. 760[2]) replica Oreste
a Pilade che lo esorta a fuggire.
Il sentimento etico di Euripide vorrebbe dèi e uomini diversi. C’è un
frammento del Bellerofonte che sembra la conclusione di un
sillogismo morale:"se gli dèi compiono iniquità, vuol dire che non sono
dèi" (fr. 292).
Nelle Troiane lo stesso dio Poseidone che
recita il prologo nota che"sono malate le cose che riguardano gli
dèi" (nosei' ta; tw'n qew'n, v. 27). Il
dio lamenta la decadenza del culto, ma Euripide suggerisce che malsano è anche
il governo del mondo.
Alla fine
della tragedia Ecuba smonta le onoranze funebri: per i morti fa poca
differenza: dokw` de; toi`~ qanou`si diafevrein bracuv (v. 1248) se uno avrà un
funerale pomposo. Il rito funebre è vano vanto dei vivi: “keno;n de;
gauvrwm j ejsti; tw`n zwvntwn tovde (1250). Taltibio dà ordine ai soldati di
appiccare il fuoco e alle donne di salire sulle navi. Ecuba vede il culmine dei
suoi mali.
Invoca gli
dèi, ma poi ricorda che non l’hanno ascoltata:
“Ah
dei! E perché invoco gli dèi?
Anche prima
infatti non ascoltarono sebbene invocati
( ijw, qeoiv,
kai; tiv tou;" qeou;" kalw` ; - kai; pri;n
ga;r oujk h[kousan ajnakalouvmenoi, Troiane, vv. 1280 - 1281).
Cfr.
Fabrizio de Andrè: Il testamento di Tito “davvero lo nominai
invano”.
Il giudizio più aspro verso il dio supremo lo troviamo nell'Eracle, quando Anfitrione rimprovera Zeus ed afferma la propria
superiorità morale sullo stesso padre degli dèi:" “Zeus, invano ti ebbi
come marito collega, w\ zeu', mavthn a[r j oJmovgamovn s j ejkthsavmhn (339), e invano ti chiamavamo condivisore del figlio. Tu eri meno amico di
quanto sembravi. Io che sono un mortale supero in virtù te che sei un dio
grande - ajreth'/ se nikw' qeo;n mevgan (342):
infatti i figli di Eracle non li ho traditi (pai'da"
ga;r ouj prouvdwka tou;" jHeraklevou", 343).
Tu sapevi
entrare di nascosto (kruvfio") nelle coltri (ej"
eujnav"), prendendo
i letti degli altri (tajllovtria levktra), sebbene nessuno te li desse, ma non sai salvare i
tuoi figli. Sei un dio stupido, oppure non sei giusto ajmaqhv"
ti" ei\ qeo;" h} divkaio" oujk e[fu" (344 - 347)
Un’altra critica si trova nell’Andromaca contro
la pretaglia delfica e Apollo.
Invano
Neottolemo, "il ragazzo di Achille"(Andromaca, v.1119) domanda:
"per
quale ragione mi uccidete mentre percorro il cammino della pietà? per quale
causa muoio? Nessuno di quelli, che erano migliaia e stavano vicini, mandò
fuori la voce, ma gettavano pietre dalle mani"(vv. 1125 - 1128). Il clero
non è estraneo a questo “crimine sacro”: a un certo punto, dai recessi dl
tempio rimbombò una voce terribile e raccapricciante che aizzò quel manipolo e
lo spinse a combattere (vv. 1146 - 1148). Il messo alla fine di questa rJh'si" accusa Apollo di essere w{sper
a[nqrwpo" kakov" (v.1164), come un uomo malvagio, e domanda:"pw'" a]n
ou\n ei[h sofov";" (v.
1165), come potrebbe essere saggio?
A questo
proposito G. De Sanctis scrive:"Ora può darsi che Euripide osasse porre in
così cattiva luce Apollo profittando del mal animo degli Ateniesi verso il dio
che spartaneggiava in quegli anni come poi filippizzò"[3].
“Sofocle misura la morale con la religione[4], Euripide
invece la religione con la morale. C’è qui senza dubbio un elemento razionale,
ma non è né preminente né decisivo, è invece il sentimento morale - aijdwv~ lo chiama il greco - che si rifiuta di attribuire agli dèi quelle
azioni “che sono ignominiose per gli uomini”[5] … La
convinzione che “ci sia qualcosa di corrotto” ( nosei`) nel modo in cui gli dèi governano il mondo[6] è
espressa da Euripide in tanti passi…”[7].
Altrettanto fa il Pericle di Shakespeare quando Licorida gli annunzia la
morte della moglie Taisa: “O you gods!/Why do you make us love your goodly
gifts/And snatch them straight away? We here below/Recall not what we
give, and therein may/Use honour with you” (Pericle, principe di Tiro, III, 1), Oh, voi dèi! Perché
ci fate amare I vostri buoni doni, e subito ce li strappate via? Noi quaggiù
non ci riprendiamo quello che diamo, e in questo possiamo competere in onore
con voi.
giovanni ghiselli
[1] La ritroviamo accentuata ed esasperata
nel Re Lear : “" As flies to wanton boys are we
to the gods. They kill us for their sport "(IV, I), come mosche
per ragazzi capricciosi siamo noi per gli dèi: ci ammazzano per loro
passatempo.
[2] Un verso che ci consente di trovare
una corrispondenza in "La Danimarca è una prigione" dell'Amleto (II,
2).
[3]Op. cit. , II vol., p. 331.
[4] Possiamo indicare una parentela
spirituale tra Sofocle e Tolstoj che in Guerra e pace (p.
1607) scrive:" Per noi, con la misura del bene e del male dataci da
Cristo, non esiste nulla di incommensurabile e non c'è grandezza là dove non
c'è semplicità, bene, verità".
[5] Xenophan. fr. 11, 2.
[6] Iph. Taur. 1403; Troad. 27,
1042; Iph. Aul. 411.
[7] Nestle, Op. cit., p. 36.
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