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La potenza della Tuvch in Euripide. L’umanesimo di Euripide (Pohlenz)
Con Euripide si trasformano o
tramontano gli dèi tradizionali, almeno quelli la parte delfico apollinea; al
loro posto si alza nel cielo la Tuvch ambigua e cangiante:
l'infausta tuvch è subentrata ai fausti dèi. Ecuba la
considera una dei tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una
specie di creature materialiste, sanguinarie, idolatre: "oujk e[sti qnhtw'n o{sti" e[st' ejleuvqero" - h] crhmavtwn ga;r dou'lov" ejstin h]
tuvch"" (Ecuba,
vv. 864 - 865), non c'è tra i mortali chi sia libero: infatti siamo
schiavi delle ricchezze oppure della sorte.
L'uomo cerca di vivere secondo
ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla tuvch. La sua salvezza e la sua libertà stanno nel considerarla con calma
ironica.
Nello Ione che
prelude più di ogni altro dramma di Euripide alla commedia di Menandro, il
riconoscimento del figlio da parte della madre avviene per casi fortuiti, per
mezzo di questa tuvch spogliata da connotazioni
teologiche.
Questa fortuna non è costantemente
maligna, bensì capricciosa e mutevole: Ione, che è stato sul punto
di uccidere la madre, esclama: "O Fortuna che cambi
mille volte le sorti dei mortali: li getti nella sventura, poi doni loro il
successo" (vv. 1512 - 1513) [1].
Nelle Troiane, Atena
passa con disinvoltura dall’amore all’odio. Nel III stasimo il coro contrappone
il sui ripetuto mevlei
mevlei moi (v.
1077) all’indifferenza, al capriccioso “me ne frego” degli dèi.
Ecuba sa che invocarli è
inutile: “kai; tiv
tou;~ qeou;~ kalw`; - kai; pri;n ga;r oujk h[kousan ajnakalouvmenoi” (vv. 1280 - 1281), perché invoco
gli dèi? Anche prima infatti non mi ascoltarono, sebbene invocati.
Cfr. Il testamento di Tito di
Fabrizio De Andrè.
Max Pohlenz nel suo trattato su L'uomo
greco [2] mette in evidenza l'umanesimo del drammaturgo:
l'uomo euripideo, pur esposto all'arbitrio della tyche, può trovare
in se stesso la capacità di rivendicare un proprio destino. "L'uomo
tuttavia non divenne mai per Euripide lo zimbello della Tyche. Eracle, l'eroe
che riuscì a far ritorno persino dall'Ade, precipita dal colmo del successo nel
baratro più profondo: in un accesso di pazzia uccide la moglie e i figli.
Tornato in sé, scorge, come Aiace, una sola possibilità: darsi la morte. Ma le
parole d'un amico fedele lo convincono che questa non sarebbe azione degna d'un
eroe, ma una vile ritirata: "voglio sopportare la vita"[3] egli dice: non compirà più imprese sovrumane, ma
si costruirà, in un limitato orizzonte, una nuova vita. La tragedia dell'uomo è
questa, d'essere materialmente esposto al cieco dominio della Tyche; ma nel suo
petto, anche per Euripide, egli ha una capacità di resistenza che lo rende
padrone del suo destino e gli consente di non disperare"[4].
[1] Alla fortuna Machiavelli dovrà
riconoscere potere su metà dell'agire umano: "la fortuna…dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle" (Il principe XXV).
Essa fornisce ai grandi della storia dotati di virtù l'occasione per
manifestarla:"Bisognava che Ciro trovassi e' Persi malcontenti dello
imperio de' Medi, e li Medi molli et effemminati per la lunga pace. Non posseva
Teseo dimonstrare la sua virtù, se non trovava li Ateniensi dispersi"
( Il principe VI). Del resto Cesare Borgia nel quale pure
c'erano "tanta ferocia e tanta virtù" non poté reggere al rovescio,
per cui, al momento della morte del padre Alessandro, era anche lui
"malato a morte", sicché non riuscì a evitare la "mala
elezione" del cardinale Giuliano della Rovere suo nemico il quale divenne
"Iulio pontefice". "Errò adunque el duca in questa elezione, e
fu cagione dell'ultima ruina sua" ( Il principe VII).
[2] Der Hellenische Mensch, 1947.
[3] "ejgkarterhvsw bivon",
affronterò la vita v. 1351. Ndr -
[4] Trad. it Max pohlenz, L’uomo greco, La Nuova Italia., 1976 83), p. pp. 164 - 165.
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