Il 20 agosto ci portarono a Visegrád, sul gomito del Danubio, dove il 20 agosto di cinque anni prima avevo passato uno dei pomeriggi più intensi e belli della mia vita con Päivi e gli amici, ancora tutti presenti e vivi in quel tempo remoto. Allora avevo visto quel luogo come la pianura iperurania della verità scesa sulla terra dove le idèe erano entrate nelle cose.
Nell’agosto del ’79 non c’era più nessuno di loro e tutto il paesaggio aveva perduto quella chiarezza epifanica. La luce del sole era assente, l’aria grigia, l’acqua torbida, la riva melmosa, gli alberi vizzi. Mi mancavano le care persone cui la corrente risanatrice dell’Istro illuminato donava salute, forza e bellezza. Non c’era più Päivi incinta di me. Aspettava una bambina che non sarebbe nata mai.
“Potamw`/ ga;r oujk e[stin ejmbh`nai di;" tw`/ aujtw`/ ” [1]
Allora sembrava che l’amore, la paternità, l’amicizia, la gioia riflessi senza interruzione dal mobile luccichio dell’acqua veloce, fossero doni per sempre, invece in poco tempo quella rapinosa corrente mi aveva portato via tutto: “oujde; qnhth`" oujsiva" di;" a{yasqai kata; e{xin”[2], né si può toccare due volte una sostanza mortale nella medesima situazione.
Quel giorno felice il 20 agosto del 1974, dell’amore e della gioia di vivere avevo visto solo frammenti che galleggiavano precipitando verso il mare nero del nulla.
Quasi tutti quei presunti amici erano solo conoscenti occasionali, la donna creduta della mia vita era la ganza di un’avventura mensile e la figlia un feto a perdersi nella corrente come le bottiglie vuote che cinque anni più tardi si dondolavano sulla corrente muovendo su e giù i colli che non rivelavano nulla poiché i loro cenni mostravano dubbi piuttosto che certezze. “quia luminis instabilis natura simul ostendit omina et rapit”[3] pensai.
Il medesimo luogo osservato con animo diverso era squallido.
Mi trovavo sulla corriera che seguendo il corso dell’Istro ci portò su una piazza situata sotto la collina del castello di Visegrád sulla riva destra del fiume. In quell’agorà c’erano tavoli, seggiole e zingari, non dionisiaci, non musicali come quelli che suonavano il cembalo nei ristoranti di Debrecen.
Mangiavano pesce fritto avvolto in una carta gialla unta che poi lasciavano sui tavoli o gettavano in terra, incuranti della decenza. C’era anche una giostra triste, semivuota, osservata da bambini emaciati, verdi e muti come lucertole chiuse in una teca di vetro situata in uno solaio buio e freddo, esposto a nord, mai battuto dal sole, nemmeno nel mese di giugno quando la luce è altissima. Il fritto mandava odore di sugna bruciata. Il castello sopra la piazza sembrava un’ accozzaglia di pietre prossime a sgretolarsi.
Attraversai la strada per osservare l’acqua dalla riva. Era lurida. C’era una spazzatura varia di carte, cocci, bottiglie, pezzi di ferro, e nefandezze innominabili, inverecondamente distese sulla ghìaia o affondate nel fango
giovanni ghiselli
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