mercoledì 20 gennaio 2021

Debrecen 1979. 74. Isabella

Isabella


Il 19 agosto ci portarono a Tihány sulla riva settentrionale del Balaton. In programma c’era l’assaggio dei vini tratti dalle vigne coltivate sui colli che orlano quella parte del lago. C’era anche la possibilità di una nuotata ma il cielo era grigio e piovoso, l’aria quasi fredda. L’autunno che due giorni pima avevo visto in agguato sulle alte chiome delle querce del bosco di Debrecen aveva fatto un salto dal confine scitico verso ovest minacciando giorni poco lieti a noi borsisti in procinto di tornare nelle nostre dimore. La speranza di trovare  calore e colori più vivi avvicinandoci a casa pareva annebbiarsi come l’aria sul lago. Voi giovani che mi leggete ora  siete stati condizionati a pensare che il calore è il male globale, è il vero male del mondo, e forse riterrete insano il mio pensiero che il calore dia gioia e favorisca la vita, la ristori del freddo agghiacciante e del buio tartareo che patiamo con sofferenza lunga per mesi e mesi.

Ma torniamo sul Balaton già raffreddato in agosto.

Per difendermi da quel cattivo tempo che mi raggrinzava e intristiva, entrai nel borkósztoló, la taverna dove offrivano il tokai di quei colli. Nel vino avrei potuto cercare qualche vestigia della luce e del calore solare dilegatesi dalla terra, dall’acqua e dall’aria. Pensavo di trarne qualche ristoro del cuore che si stringeva al pensiero dell’appressarsi dell’equinozio umido che offusca il nostro emisfero. Il tokai in effetti mi diede una strana consolazione, ma  trassi invero maggior conforto da un atto di delicatezza che mi offrì Isabella, la ragazza napoletana che avevo accompagnato nella clinica dentistica.

Entrato con un leggero ritardo, vidi i tavoli già in gran parte occupati. Del resto non sapevo con chi sedermi. I miei amici erano già partiti. Passeggiavo in mezzo alla sala aspettando un invito che però non arrivava. Mi tornò in mente il primo pranzo nella mensa del collegio quando mi invitò Fulvio. Allora eravamo nel  ’66. Nell’agosto del ’79 invece nessuno mi tendeva la mano. Questa seconda volta non avevo bisogno di un aiuto che mi salvasse dalla disperazione, ma di un invito che mi avrebbe tolto dall’imbarazzo. Se quella chiamata non  fosse giunta, non mi sarei disperato ma sarei uscito dalla bettola. Però nemmeno il cielo troppo freddo e scuro era invitante. Sicché sedetti a un tavolo vuoto e bevvi paio di bicchieri non grandi anzi piuttosto piccini. Non mi guardavo intorno per evitare di dare uno spettacolo miserando e pietoso.  Isabella però si accorse della mia aria da bevitore di assenzio e si avvicinò  per chiedere se volevo unirmi alla sua compagnia: nel loro tavolo era rimasto appunto un posto libero. La ragazza partenopea  disse che avrebbe gradito la mia presenza. Diedi un’occhiata nella direzione che mi indicava e vidi due ragazzi che non mi erano punto simpatici, né io a loro. Perciò risposi che le ero assai grato di essersi accorta della mia difficoltà ma preferivo rimanere solo che accostarmi a quei due. Allora Isabella mi diede prova di finezza d’animo e nello stesso tempo di intelligenza. Disse: “Gianni, siccome sei solo e ti trovi in  difficoltà, come  arguisco dalla tua faccia cupa dove del resto non manca una dose non piccola di scena, se ti fa piacere, se questo ti aiuta, rimango qui con te. Non ho dimenticato quanto sei stato cortese con me”

“In questo terra che il Danubio riga, soglion valore e cortesia trovarsi - risposi - e non tanto in me quano in te”. Dopo la citazione alla ragazza letterata[1] aggiunsi altre parole alla persona perbene: “ tu sei buona, Isabella. Sei stata l’unica ad avere notato il mio imbarazzo, a esserti accorta della mia difficoltà. Ti prego di restare seduta qui: mi faresti piacere, mi daresti una mano” E le feci il complimento più bello che un uomo della mia età di allora può fare a una ragazza di quindici anni più giovane: “Se mai dovessi mettere al mondo una figlia, vorrei che diventasse una ragazza buona, intelligente carina come te”.

giovanni ghiselli     

 



[1] Cfr Dante, Paradiso, VIII, 65 e Purgatorio XVI, 116

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