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Argomento
Un’altra invenzione disapprovata: la
scrittura. Ricordare attraverso la lettura danneggia la memoria. Il Fedro platonico.
Quintiliano. Giulio Cesare. Il divieto di scordare nell’Odissea.
Una confutazione efficace dei benefici operati dalla scrittura nei
confronti della memoria si trova nel mito di Theuth del Fedro di
Platone.
Il dio Theuth è il Prometeo degli Egiziani, anche se gli annotatori
scrivono che corrisponde a Ermes. Theuth si reca dal re Thamus, che dovrebbe
corrispondere ad Ammone, quindi a Zeus, e gli presenta le sue invenzioni
elogiandole: i numeri, il calcolo, l'astronomia, la geometria, il tavoliere, i
dadi, e infine le lettere; di queste in particolare dice: "renderanno gli
Egiziani più saggi e più capaci di ricordare: è stato trovato un farmaco della
memoria e della sapienza “mnhvmh" te ga;r kai;
sofiva" favrmakon huJrevqh”, 274e).
Il "re di tutto quanto l'Egitto" rispose: "w\ tecnikwvtate
Qeuvq, o ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di
produrre i mezzi della tecnica e chi sa giudicare quale parte di danno e pure
di vantaggio per quelli che ne faranno uso. E ora tu, essendo il padre della
scrittura, per benevolenza - di’ eu[noian - hai detto il
contrario di quanto essa può. Questa infatti produrrà dimenticanza - lhvqhn - nelle anime di coloro che l'hanno imparata, per incuria della memoria,
poiché per fiducia nella scrittura, ricordano dall'esterno, da segni altrui,
non dall'interno, essi da se stessi: dunque non hai trovato un farmaco della
memoria ma del ricordo" (ou[koun mnhvmh~, alla; uJpomnhvsew~, favrmakon hu|re~, 275a).
Così viene confutata la scrittura da
Platone.
Lo ricorda Quintiliano: “invenio
apud Platonem obstare memoriae usum litterarum, videlicet quoniam illa, quae
scriptis reposuimus, velut custodire desinimus et ipsa securitate dimittimus”
(Institutio oratoria, XI, 2, 9), leggo in Platone che ostacola la
memoria l’uso dei caratteri scritti, evidentemente perché quello che abbiamo
messo da parte negli scritti smettiamo di custodirlo, per così dire, e per
questa stessa mancanza di cura lo lasciamo perdere.
Giulio Cesare racconta dei
drùidi, i quali tra i Galli attendono al culto e mette in rilievo che essi sono
tenuti in conto e onorati tanto che molti cercano di entrare nella loro scuola
o ci vengono mandati dai genitori. La disciplina cui sono sottoposti per
arrivare a quei privilegi però è durissima e impone un grande sviluppo della
memoria attraverso il disuso della parola scritta: “Magnum ibi numerum
versuum ediscere dicuntur” (De bello gallico, VI, 14), si dice che
imparino a memoria un gran numero di versi. “Itaque annos nonnulli XX in
disciplina permanent”, così alcuni rimango a scuola per venti anni. “Neque
fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis
privatisque rationibus, Graecis utantur litteris”, non considerano attività
permessa affidare quelle dottrine alla scrittura, mentre in quasi tutte le
altre pratiche, quelle amministrative, conti pubblici e privati, fanno uso
dell'alfabeto greco. Quindi Cesare ne spiega le ragioni che sono più o meno
quelle di Thamus: "id mihi duabus de causis instituisse videatur, quod
neque in vulgum disciplinam efferri velint, neque eos qui discunt, litteris
confisos minus memoriae studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio
litterarum diligentiam in perdiscendo ac memoriam remittant" (VI, 14),
credo che abbiano disposto questo per due ragioni: non vogliono che la loro
scienza venga divulgata né che i discepoli fidandosi della scrittura diano meno
importanza alla memoria; poiché di solito ai più succede che con l'aiuto della
scrittura abbandonano l'impegno di imparare bene e perdono la memoria.
Sul rischio di scordare il ritorno,
e l’Odissea, ha scritto parole interessanti Calvino: "Il
ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere
scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio
raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere
la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della
dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine,
può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante
traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua
perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha
sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della
smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone più volte:
prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col
canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole
dimenticare all'istante (...) Dimenticare che cosa? La guerra di Troia?
L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del
viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il
ritorno". Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la
forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo
che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già
cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi
canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il
verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno"
vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di
battaglia del loro repertorio"[1].
Giunti tra i lotofagi, quanti
mangiavano il dolcissimo frutto del loto volevano rimanere là a mangiarlo novstou te
laqevsqai (Odissea,
9, 97) e scordare il ritorno.
Bologna 7 gennaio 2021 ore 18, 25
giovanni ghiselli
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[1]I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.
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