NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 7 gennaio 2021

Eschilo. "Prometeo incatenato", XI. L'invenzione della scrittura

Theuth
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Argomento

Un’altra invenzione disapprovata: la scrittura. Ricordare attraverso la lettura danneggia la memoria. Il Fedro platonico. Quintiliano. Giulio Cesare. Il divieto di scordare nell’Odissea.

 

Una confutazione efficace dei benefici operati dalla scrittura nei confronti della memoria si trova nel mito di Theuth del Fedro di Platone.

 Il dio Theuth è il Prometeo degli Egiziani, anche se gli annotatori scrivono che corrisponde a Ermes. Theuth si reca dal re Thamus, che dovrebbe corrispondere ad Ammone, quindi a Zeus, e gli presenta le sue invenzioni elogiandole: i numeri, il calcolo, l'astronomia, la geometria, il tavoliere, i dadi, e infine le lettere; di queste in particolare dice: "renderanno gli Egiziani più saggi e più capaci di ricordare: è stato trovato un farmaco della memoria e della sapienza mnhvmh" te ga;r kai; sofiva" favrmakon huJrevqh”, 274e).

 Il "re di tutto quanto l'Egitto" rispose: "w\ tecnikwvtate Qeuvq, o ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di produrre i mezzi della tecnica e chi sa giudicare quale parte di danno e pure di vantaggio per quelli che ne faranno uso. E ora tu, essendo il padre della scrittura, per benevolenza - di’ eu[noian - hai detto il contrario di quanto essa può. Questa infatti produrrà dimenticanza - lhvqhn - nelle anime di coloro che l'hanno imparata, per incuria della memoria, poiché per fiducia nella scrittura, ricordano dall'esterno, da segni altrui, non dall'interno, essi da se stessi: dunque non hai trovato un farmaco della memoria ma del ricordo" (ou[koun mnhvmh~, alla; uJpomnhvsew~, favrmakon hu|re~, 275a).

 

Così viene confutata la scrittura da Platone.

Lo ricorda Quintiliano: “invenio apud Platonem obstare memoriae usum litterarum, videlicet quoniam illa, quae scriptis reposuimus, velut custodire desinimus et ipsa securitate dimittimus” (Institutio oratoria, XI, 2, 9), leggo in Platone che ostacola la memoria l’uso dei caratteri scritti, evidentemente perché quello che abbiamo messo da parte negli scritti smettiamo di custodirlo, per così dire, e per questa stessa mancanza di cura lo lasciamo perdere. 

 

 Giulio Cesare racconta dei drùidi, i quali tra i Galli attendono al culto e mette in rilievo che essi sono tenuti in conto e onorati tanto che molti cercano di entrare nella loro scuola o ci vengono mandati dai genitori. La disciplina cui sono sottoposti per arrivare a quei privilegi però è durissima e impone un grande sviluppo della memoria attraverso il disuso della parola scritta: “Magnum ibi numerum versuum ediscere dicuntur” (De bello gallico, VI, 14), si dice che imparino a memoria un gran numero di versi. “Itaque annos nonnulli XX in disciplina permanent”, così alcuni rimango a scuola per venti anni. “Neque fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus, Graecis utantur litteris”, non considerano attività permessa affidare quelle dottrine alla scrittura, mentre in quasi tutte le altre pratiche, quelle amministrative, conti pubblici e privati, fanno uso dell'alfabeto greco. Quindi Cesare ne spiega le ragioni che sono più o meno quelle di Thamus: "id mihi duabus de causis instituisse videatur, quod neque in vulgum disciplinam efferri velint, neque eos qui discunt, litteris confisos minus memoriae studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio litterarum diligentiam in perdiscendo ac memoriam remittant" (VI, 14), credo che abbiano disposto questo per due ragioni: non vogliono che la loro scienza venga divulgata né che i discepoli fidandosi della scrittura diano meno importanza alla memoria; poiché di solito ai più succede che con l'aiuto della scrittura abbandonano l'impegno di imparare bene e perdono la memoria.

 

Sul rischio di scordare il ritorno, e l’Odissea, ha scritto parole interessanti Calvino: "Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante (...) Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il ritorno". Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di battaglia del loro repertorio"[1]

 

Giunti tra i lotofagi, quanti mangiavano il dolcissimo frutto del loto volevano rimanere là a mangiarlo novstou te laqevsqai (Odissea, 9, 97) e scordare il ritorno.

 

Bologna 7 gennaio 2021 ore 18, 25

giovanni ghiselli

 

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[1]I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.

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