La solitudine assegnata dalla Provvidenza. Negli anni Cinquanta a Moena passeggiavo e fantasticavo da solo. Negli anni Ottanta sciavo e continuavo a fantasticare.
La mattina del sei marzo andai a sciare sulle piste
del Laurino. Salivo con un bidone, adagio, tra le gelide ombre di un bosco, poi
scendevo a precipizio per un pendio scosceso e poco innevato. La pista, ripida al
pari di un tetto aguzzo, è sovrastata dalla Roda di Vael, una roccia sottile e
appuntita come una guglia. Più volte mi buttai giù per la dirupata discesa
invocando Ginevra: se vacillavo perché mi aiutasse a non cadere, se scendevo
veloce, affinché mi infondesse la forza e il coraggio di continuare. Sul
mezzogiorno, quando il sole sembrò sbaragliare le nubi con le quali lottava
dalla mattina, mi fermai sotto la rupe, tanto affilata e luminosa da sembrare
una spada. Volevo abbronzarmi mentre mangiavo un panino. Presto però la calda
luce fu soverchiata dal vento e dalle nuvole. Allora mi mossi per tornare a
Moena.
Mentre entravo in paese, forai un pneumatico
dell'automobile che dovetti lasciare a un gommista poiché era bucata anche la
ruota di scorta. Aspettando che la Volkswagen avesse le gomme aggiustate, andai
al bar Maria per vedere il gioco delle bocce, come facevo spesso quando ero bambino.
Vidi e riconobbi alcune persone di trent'anni prima.
Erano invecchiati, ma recitavano la stessa parte, dicendo parole e facendo gesti simili a quelli di allora. Dopo avere lanciato, o lasciato cadere di mano la boccia, la seguivano, la sgridavano, la incoraggiavano, come si fa con una creatura. Notevole tra tutti era “Micelotto” che gridava e si agitava in una farsa seguita dal pubblico con grande piacere. "L'è bela, l'è bela", diceva spesso della propria giocata, consapevole e soddisfatto di essere bravo. Lo osservavo con attenzione e simpatia. "Quanti anni può avere?" mi chiesi. "Allora era un ragazzo. Adesso una cinquantina. Però gli piace sempre farsi guardare". Bocciava e recitava bene del resto. La sua parte migliore nel mondo doveva essere quella: fare vedere e sentire come sia bello giocare alle bocce. Certo è meglio che giocare con le persone. Ciascuno di noi, quando fa qualche cosa con passione e attitudine, dopo molto esercizio sa farla bene e vuole darlo a vedere.
Ora sono in pensione da dieci anni e da quasi trenta faccio conferenze: ho imparato a farle molto bene e mi piace farle perché continuo a stare dove le mie doti trovano il terreno adatto per fruttificare e questi frutti possono servire a chi mi ascolta o mi legge.
Micelotto accarezzava ognuna di quelle sue creature
rotonde, la faceva uscire dalla mano dopo le carezze affettuose, e la seguiva incoraggiandola
come un padre: se gli sembrava corta, mimava il gesto di colui che spinge; se
lunga, significava con le mani il desiderio di trattenerla e dissuaderla dal
proseguire. Era un attore anche lui. Aveva un repertorio limitato, ma lo
eseguiva con amore e con arte. Quando piazzava un tiro ottimo, e gli riusciva spesso,
lo ricompensavano gli applausi del pubblico e un sorso di vino.
"Caro, simpatico Micelotto, mi piacevi quando ero
un bambino e tu un giovane uomo, quasi un ragazzo ancora, un po’ rincagnato a dire
il vero, ma dallo sguardo vivace, e mi piaci adesso, dopo che sono passati
trent'anni intorno a noi, come le nuvole sopra questa nostra valle di Fassa”.
Tornai dal gommista: l'automobile non era pronta. Per
fare qualcosa, mi incamminai verso il paesino Someda, situato sopra il rio San
Pellegrino. Dall'altra parte del torrente che scorre nel fondo della convalle
stretta come una gola, c'è “La Campagnola”, sulla la strada del passo San
Pellegrino che porta a Belluno. Da bambino, appena la zia Giulia mi dava il
permesso, camminavo da quella parte, in direzione del valico. Prima passavo
davanti a una cisterna d'acqua che rumoreggiava. Fantasticavo che fosse un
deposito di
armi degli austriaci, i nemici della mia patria, come
mi insegnavano i maestri dell’epoca postfascista , invece di parlarmi di
Mozart, di Musil, di Freud, o almeno dell’ordinata amministrazione asburgica nel
Lombardo - Veneto. Giravo con un ramo in mano, impugnandolo come un fucile, che
tuttavia non bastava per conquistare l'armeria sorvegliata da una decina di
quegli odiosi soldati in divisa bianca; allora pensavo di farla saltare con
delle mine. Ma poi ci ripensavo, poiché ammazzare in maniera così vigliacca,
sebbene coloro fossero tanto crudeli con gli Italiani irredenti, mi ripugnava. Allora
proseguivo finché vedevo la fortezza nemica sorgere sulla strada di fronte,
dopo Someda. Decidevo di minarla mentre era sguarnita del presidio, uscito per
vessare il paese del nostro Trentino. Però dovevo superare il vuoto compreso
tra le due pareti della stretta convalle. Scendevo a precipizio per un burrone
ripido e tetro, tutto ombreggiato da fitti rami di abeti. Arrivato in fondo, guadavo
il torrente saltando sui sassi emergenti dall'acqua gelida e cupa nel
pomeriggio inoltrato di fine agosto, quindi risalivo su per l'altro pendio,
altrettanto scosceso ma soleggiato poiché volto a occidente e privo di alberi.
Però c'era l'erba alta, dove potevano stare nascosti in agguato serpenti e
scorpioni. Senza contare i lupi in agguato nei loro covi o i cani addestrati ad
addentare e messi a guardia delle baite.
Tutto questo mi faceva paura, mi emozionava,
salvandomi dalla noia della gran solitudine, mi spronava a ribellarmi alle zie
che mi volevano “prudente”, ossia pauroso e sottomesso all’autorità.
Quando arrivavo in alto, osservavo la valle di Fassa.
Facevo attenzione all'ombra del Sas da Ciamp che sovrasta la malga Panna:
appena il monte aveva oscurato il prato di Sorte e la chiesa con il cimitero,
dovevo tornare di corsa, poiché la zia voleva vedermi prima del tramonto,
altrimenti telefonava al soccorso alpino che rintracciava i bambini dispersi, e
li salvava dalla morte per freddo lupi o scorpioni, ma poi li picchiava anche,
e con mano pesante. Ero stato avvertito dalla zia che cercava di salvaguardarmi
dai tanti pericoli del mondo. Andavo dunque di fretta fino al fortino austriaco
per farlo saltare in aria e liberare intanto gli Italiani di Someda, Sorte e
Moena.
Quando lo vidi da vicino la prima volta, rimasi
deluso: invece di mitragliatrici e cannoni, nel prato antistante c'erano
pacifici arnesi da contadino, tanto sterco di mucca, e un cartello con la
scritta "Proprietà privata ". Comunque io lo minavo e fuggivo a gambe
levate finché la strada era piana. Poi ripercorrevo le due pareti della convalle:
una scivolando sull'erba, l'altra inerpicandomi tra le ombre del bosco e della
sera, semiterrorizzato.
Quando arrivavo alla Campagnola, la zia Giulia diceva:
"Dove sei stato per conciarti in quella maniera? Quando ti metterai tranquillo
come i bambini normali? Oramai le vacanze sono finite! Non sei ancora sazio di
correre, scalmanarti, azzardare? Non sei mai stato prudente!"
Per fortuna non aspettava che rispondessi: continuava
a rimproverarmi per un pezzo; sicché non dovevo dirle la verità, né una bugia.
Quando si era placata, tornavamo a casa, in via Damiano Chiesa 11. In agosto,
alle sette di sera, dalle finestre del tinello, se non c'erano nuvole, si
vedeva ancora un poco di luce solare sulle rocce più alte. Era fredda e
leggera, come se vi fosse stata dipinta, o cosparsa, quale polvere rosa. Più a
lungo che altrove resisteva sulla cima del Sassolungo, sull’estremo nord del
Catinaccio.
Osservare gli ultimi raggi raccolti dalle vette
infreddolite, era come fruire di un secondo tramonto. La luce trascolorante
tardava a scomparire tutta, e mentre assumeva le tonalità più delicate,
sembrava intenerire le aspre pietraie dove i palpiti ultimi del dì indugiavano
come bambini che non vogliono andare a dormire, o come vecchi renitenti a morire.
Tali ricordi rimuginavo il 16 marzo del 1981 mentre
camminavo oltre Someda, in direzione della funivia che porta alle piste del
Lusia.
Qualche ora più tardi sarei andato alla stazione di
Trento, a prendere Ifigenia.
A un tratto mi aggredì il pensiero malato della
verginità. Volevo respingerlo. Salii sul ciglio del burrone che sprofonda nella
convalle del rio San Pellegrino e mi fermai a osservare il torrente che scorre
circa un chilometro sotto. Notai un piccolo ponte di legno che una volta non
c'era. Vi giunsero alcuni bambini che cominciarono a giocare: gettavano palle
di neve e pezzi di ghiaccio nell'acqua corrente che li trascinava verso
l'Avisio; gridavano con voci liete alcune parole che di lassù non potevo capire.
Allora mi sorprese il ricordo del pomeriggio di un agosto remoto. Mi trovavo
sullo stesso sentiero, e osservavo dall'alto lo scorrere eterno del rio San
Pellegrino. Quand'ecco che sul greto vidi arrivare un gruppetto di bambini
della mia età che subito dopo si misero a giocare con l'acqua e con i sassi.
Mentre li guardavo, mi accorsi che uno di loro era Gianluca, un mio amico
dell'anno prima quando si scendeva insieme giù per i prati con una slitta di legno,
poi si andava a vedere il gioco delle bocce.
In un giorno di pioggia già fredda avevamo parlato di
tante cose, riparati sotto un castagno dalle foglie grandi, lucide, scure,
simili a ombrelli. Mi piaceva passare il tempo con lui. Quell'estate però,
sebbene fosse
già la fine di agosto, non lo avevo ancora incontrato.
Come lo vidi, provai gioia. Cominciai a chiamarlo, ma non mi sentiva. Mi diedi ad
agitare le braccia, mentre gridavo il suo nome con tutta la mia esile e acuta
voce di bambino decenne. Ero troppo lontano, troppo in alto, e Gianluca non
guardava in su, siccome tutto impegnato a giocare con gli altri e con i
ciottoli del greto.
Dopo alcuni tentativi, fui certo che di lì non potevo
attirare la sua attenzione; allora mi precipitai giù per il pendìo. Correvo,
saltavo, mi rotolavo: mi graffiai, mi sbucciai, mi ammaccai in più punti. In breve
arrivai nel fondo. Desideravo tanto parlare con quell'unico amico, e conoscere
gli altri. Ma quando fui giunto, non c'era più nessuno. Mi trovai solo, a
fissare il torrente che con la schiuma lamentosa tormentava le pietre. Girai
per tutta la zona, poi per il paese intero, cercandoli: invano. Ne fui
addolorato: dovetti passare in solitudine anche quel pomeriggio e gli altri che
rimanevano.
"Sono stato molto solo a Moena. - pensai quel
giorno di marzo ricordando l'episodio antico - In quelle estati lontane, tra
questi monti, si prefigurava la mia vita di adulto".
Volli riprovare a percorrere l'erto pendio per
avvicinarmi ai bambini, per ascoltarli e raccogliere segni del volere divino attraverso
le loro voci, forse profetiche. Mentre scendevo, continuavo a guardarli.
Ebbene, quando fui a metà, i fanciulli andarono via di corsa. Allora mi dissi: "Che
cosa significa questo?"
"La mia tendenza a giungere tardi", risposi
e mi vennero in mente alcuni versi di un poeta magiaro, Juhàsz
Gjula, morto suicida nel 1937:
Perché tardi son giunto.
So già il peso della mia sorte,
la segreta tristezza e perché non v'è speranza,
perché è pallido l'arcobaleno sul cielo del mio
destino
e presto viene la notte. Perché tardi son giunto...
Perciò nessun dizionario mi dà nuovi verbi... perché
tardi son giunto
Perciò non ebbi nella schiera delle fanciulle
un cuore a me devoto... Perché tardi son giunto
Juhàsz si era ammazzato con il veronal, diceva il
manuale di storia della letteratura ungherese, in quanto non era riuscito a
rompere il cerchio della solitudine.
"Devo farlo anche io?" Mi domandai.
"No", mi risposi. "Dal mio arrivare tardi ho saputo trarre
positivo. La solitudine mi ha potato a riflettere sulla mia stranezza, sulle
mie sofferenze, fino a farne mezzi di crescita personale e di solidarietà
umana. Se negli anni Cinquanta a Moena non fossi stato tanto solo, non mi sarei
abituato fino da allora a indagare me stesso[1], ed ora non avrei coscienza di
me: sarei un'altra persona, e non credo migliore. Se non fossi stato la persona
fuori luogo che sono, sarei rimasto nel posto del gregge.
Più tardi, con le donne, il mio giungere tardi si è
ripetuto.
La Sarjantola era incinta di un altro. Kaisa era la
moglie di un altro. Päivi, che era libera, in luglio e in agosto mi amò, in
settembre abortì, poi tacque fino al luglio successivo quando disse che non
voleva vedermi. Queste erano le migliori ma anche con loro è andata così, come
con tutte le altre. Vennero donne con proteso il cuore[2]. Non poche grazie a
Dio e grazie a loro.
E meravigliosamente io le conobbi[3], ma ognuna
dileguò senza vestigio[4].
Se andrò avanti in questa maniera, diventerò come la peccatrice
del Vangelo: i miei molti peccati mi verranno perdonati quoniam dilexi multum
poiché molto ho amato. Anche a me Gesù Cristo dirà: “Remissa sunt peccata tua
multa ” [5].
Bologna 7 gennaio 2021 ore 13, 17.
giovanni ghiselli
p. s
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[1] Cfr. Eraclito: “ejdizhsavmhn ejmewutovn ” (fr. 126D), ho indagato me stesso.
[2] Cfr. Gozzano, La signorina Felicita, 259.
[3] Cfr. D’Annunzio, Laudi; Maia, Le donne.
[4] Cfr. Gozzano, La signorina Felicita, 260.
[5] Cfr. N. T., Luca, VII, 4 7.
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