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Argomento
L’umanesimo dei personaggi di Sofocle quali sopra
tutti Antigone e Teseo
Nei testi di Sofocle si trova un continuo zampillare di quelle gocce
luminose che costituiscono la voce misteriosa degli oracoli e nello stesso
tempo l'intimità della coscienza religiosa dell'uomo europeo, tanto che risuona
analoga in autori lontani nel tempo e nello spazio. Essa si scontra con il
pensiero antroponomo in una collisione tragica che tuttavia non esclude un
ottimismo di fondo consistente in un assenso alla volontà divina la quale non
può essere cattiva siccome permea questo mondo bello e sacro, rigoglioso di
lauri, olivi e viti, allietato dal dolce canto degli usignoli numerosi in mezzo
alla boscaglia di Colono, il demo natale del poeta.
E. Rohde, in Psiche scrive:
Sofocle "è di quegli uomini molto pii ai quali basta d'intendere appena la
volontà divina per sentirsi pervasi di reverenza, e che non hanno il bisogno di
giustificare questa potente volontà dal punto di vista dei concetti umani di
moralità e di bontà" (p.568).
Il verso 523
dell’Antigone è emblematico dell’umanesimo di Sofocle. A Creonte
che vorrebbe legittimare l’insepoltura del nipote Polinice, morto da nemico, la
ragazza replica: "ou[toi sunevcqein, ajlla; sumfilei`n e[fun”, Certamente non sono nata per
condividere l'odio ma l'amore".
Sul
significato di "amore" in questo verso, sentiamo
V. Ehrenberg:"Dobbiamo intendere il
termine "amore" senza le posteriori implicanze erotiche o cristiane -
come e[rw" o come ajgavph, bensì concepirlo puramente
come filiva, - ed infatti tale è la sua designazione in questo passo - , qualora
intendiamo captare una delle componenti che agiscono in seno alle leggi non
scritte di Antigone. L'amore come filiva, come opposto rispetto all'"odio" o
all'"inimicizia" (in greco designati con il medesimo termine), è un
vincolo umano che forse appare più vicino all'amicizia che all'amore; esso
costituisce il vincolo che unisce gli uomini ed è uno dei fondamenti su cui
poggiava la società greca"[1].
E. Fromm sostiene che
"Antigone rappresenta l'umanità e l'amore; Creonte, il despota
totalitario, l'idolatria dello stato e l'ubbidienza"[2].
Inoltre:"Esiste
un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'Antigone di Sofocle,
una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento; in essa, Antigone
rappresenta l'umanesimo e Creonte le leggi disumane che sono opera dell'uomo"[3].
Anche nell’Antigone di B. Brecht la potagonista afferma
di vivere per l'amore, non per l'odio, e al tiranno, che l'accusa di non vedere
"il divino ordinamento dello Stato", ribatte:"Sarà divino, ma lo
vorrei piuttosto/Umano, figlio di Meneceo, Creonte".
Antigone è
una delle donne indomite della tragedia greca. “Elettra, Antigone, Ecuba,
Giocasta, Medea, Fedra, Agave possono essere annientate, ma non sono mai né
sottomesse né vinte. Creonte non ha mai vinto, non vincerà mai Antigone. E il
potere che annienta, o persuade, ma che non vince, ha in sé, come dice
Euripide, in una vertiginosa anticipazione di Simone Weil, qualcosa di malato.
Così anche i discorsi più radicalmente contestatori del potere, non solo umano,
ma anche divino, sono affidati a donne”[4].
La legge
naturale dell'amore è così forte che la sente anche la parte buona di Edipo
"tiranno":" ajll j eij povlin thvnd j ejxevsws
j, ouj moi mevlei" (Edipo
re , v. 443), ma se ho salvato questa città, non mi importa.
Un'altra
espressione di umanesimo, forse la più alta, è quella che il vecchio
Sofocle attribuisce a Teseo nell'Edipo a Colono : "e[xoid j ajnh;r
w[n"(v.567), so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità
senza la quale ogni atto violento è possibile.
Il sapere di essere uomo che cosa significa e comporta? Significa
incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo
domande:"kaiv s joijktivsa" - qevlw jperevsqai[5],
duvsmor j Oijdivpou, tivna - povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t j
e[cwn", vv.
556 - 558, e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale
preghiera per la città e per me ti sei fermato qui. Comporta ascoltare e
comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e
destinati alla morte. "Anche io - dice il re di Atene al mendicante cieco
- sono stato allevato fuggiasco come te"(vv.562 - 563)."Dunque so di
essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te"(vv. 567 -
568). E’, di nuovo, il tw`/ pavqei mavqo~.
“Neppure in
questo dramma domina un pessimismo cupo e senza speranza. L’energia creativa
che per un favore degli dèi era stata conservata a Sofocle e gli aveva fatto
trasfigurare la fine di Edipo, lo aiutava anche a superare i lati oscuri della
vita. E se lo addoloravano le contese e le discordie dominanti nell’Atene del
suo tempo, egli si rifugiava, come Platone in vecchiaia, nel passato, e nella
sua opera creava un’Atene ideale, la città più pia e quindi più felice che,
retta da un principe nobile e umanissimo, aiutava gli oppressi”[6].
E’ la sumpavqeia della quale si ricorderà
Virgilio, quando farà dire a
Didone, rivolta al naufrago Enea: “ Quare agite o tectis,
iuvenes, succedite nostris./Me quoque per multos similis fortuna
labores/iactatam hac demum voluit consistere terra;/non ignara mali miseris
succurrere disco” (Eneide, I, 627 - 630), perciò, avanti giovani,
entrate sotto i nostri tetti. Anche me un destino del genere, dopo avermi
sbattuta attraverso molti travagli, volle che finalmente mi fermassi in questa
terra. Non ignara del dolore ho imparato a soccorrere gli infelici. Tale humanitas viene
echeggiata dalle prime parole del Decameron: "Umana cosa è
l'aver compassione degli afflitti"[7], ma non verrà contraccambiata
dalla pietas spietata di enea.
Secondo Leopardi è l’uomo forte che si
consente la compassione per i deboli: “L’uomo forte ma nel tempo stesso
magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un
sentimento di compassione per l’altrui debolezza, e quindi anche una certa
inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire l’amabilità, trovare
amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con
pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorché giustamente”[8].
Alla voce di
fatto vedo
Nell’ultima
tragedia di Sofocle, Edipo da cieco, impara ad ascoltare:"Egli chiede
informazioni sul luogo in cui si trova, sulla natura e gli usi che sono propri
di tale luogo, nonché sui modi di adeguarsi ad essi. "Nascondimi nel
bosco, finché abbia sentito che cosa diranno" (vv. 114 - 115), dice ad
Antigone. E il coro si rivolge a lui per la prima volta con queste parole: "Odi,
o infelice errante? (v. 165). Antigone lo avverte: "E' meglio che entriamo
ora, e che li ascoltiamo (v. 171). "Alla voce, vedo" (fwnh'/ ga;r
oJrw' , v.
138). Essere vivi è ascoltare: il Coro descrive la morte come "senza
imenei senza lira senza cori" (v. 1222). Edipo impara la preghiera dal
Coro ascoltando (ajkou'sai bouvlomai[9], v. 485). Se nel Tyrannos non
riusciva a smascherare con lo sguardo l'inganno di Creonte, nell' Epi
Kolonoi ci riesce con l'udito (ajkouveq', v. 881)"[10].
giovanni ghiselli
[1]Op. cit., p. 50.
[2]Amore, sessualità e matriarcato , p. 21.
[3]La disobbedienza e altri saggi , p. 63.
[4] F. Rella introduzione a Euripide
Baccanti,, p. 37.
[5] =ejperevsqai: infinito aoristo di ejpeivromai, domando.
[6] M. Pohlenz, La
tragedia greca, p. 397.
[7] Che nella fattispecie sono in
particolare le donne innamorate.
[8] Zibaldone, 941.
[9] Ascoltare voglio.
[10] J. Hillman, Variazioni
su Edipo , p. 129.
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