PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUILa Torre di Babele secondo Athanasius Kircher – 1679
Argomento
L’ambiguità delle parole, delle situazioni, degli oggetti. Sofocle, Pirandello, Eschilo, Euripide.
Una delle caratteristiche dell'affabulazione sofoclea è quella
dell'ambiguità.
"Può
trattarsi di un'ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama homōnymiva (ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso
possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua[1]. Il drammaturgo gioca su queste per
esprimere la sua visione tragica di un mondo in urto con se stesso, lacerato
dalle contraddizioni. In bocca ai diversi personaggi, le stesse parole
acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore semantico
non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune[2]. Così, per Antigone, novmos designa il contrario di ciò
che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui novvvmos [3]. Per la fanciulla il termine
significa "norma religiosa"; per Creonte, "editto promulgato dal
capo dello Stato". E in realtà il campo semantico di novmos è sufficientemente esteso per
comprendere, con altri, ambedue i sensi. L'ambiguità traduce allora la tensione
fra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le
parole scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e
l'accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l'impermeabilità degli
spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i
protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso
nell'universo che gli è proprio, dà alla parola un senso ed uno solo. Contro
questa unilateralità urta violentemente un'altra unilateralità"[4].
Pirandello
sembra teorizzare un ritorno al caos linguistico della torre di Babele.
Non per
niente il drammaturgo siciliano scrisse "Io dunque sono figlio del Caos; e
non allegoricamente, ma in giusta realtà"[5], con allusione alla località
rustica vicina a "Girgenti" detta "il Caos" dove egli
nacque nel giugno del 1867, in un villino posto su una piccola altura affacciato
sul mare.
L’
impossibilità di intendersi viene teorizzata da Pirandello nei Sei personaggi: "Ma se è
tutto qui il male! Nelle parole! (…) come possiamo intenderci, signore, se
nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono andate
dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col
valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro! Crediamo d'intenderci;
non ci intendiamo mai!"[6].
Luogo simile
si trova nell'ultimo romanzo dell'Agrigentino, Uno, nessuno e centomila [7]: "il guajo è che voi,
caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me
quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la
stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole,
per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel
dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio.
Abbiamo creduto d'intenderci; non ci siamo intesi affatto" (p. 39).
Antigone,
Creonte e le creature di Pirandello non si capiscono, neppure quando sono della
stessa città e della stessa famiglia.
L’ambiguità
del resto non riguarda soltanto il linguaggio.
Anche una
situazione, o un intero dramma possono essere ambigui: “La puoi dire viva e pure
che è morta”[8] .
“L’ambiguità
è il cardine di Alcesti: il tessuto linguistico e la struttura teatrale sono a
essa soggetti; l’azione è ambigua e si rievocano ironicamente i miti che negano
la resurrezione. Ma cosa significa ambiguità? Nel rapporto tra significante e
significato, la superficie del segno - la sua “icona”, la sua “forma” - oppure
il suo significato, la sua sostanza, possono essere ambigui (…) Ambiguo in
maniera diversa - a livello di significato - è il tappeto rosso sul quale
cammina Agamennone nell’Orestea. Questo tappeto è un vero tappeto,
tessuto di lana di pecora e colorato con succo di porpora, ma nello stesso
tempo è il segno del sangue che Agamennone ha fatto sgorgare e che dovrà ora
versare a sua volta. Il percorso sul tappeto rosso è un sacrificio blasfemo che
offende gli dèi, e diventa contemporaneamente una reale cerimonia sacrificale
non appena il celebrante si trasforma in vittima. Il tappeto rosso di
Agamennone è il più vivo e il più ambiguo dei segni teatrali”[9].
Esposto a sguardi invidiosi è lo sfarzoso tappeto di porpora offerto da
Clitennestra ad Agamennone. Il reduce vincitore in un primo momento,
giustamente, lo rifiuta:" non rendere esposto all'invidia (ejpivfqonon) il mio cammino stendendo tappeti: gli dèi bisogna onorare con questi (
vv. 921 - 922). Poi però si lascia convincere ma quando passa sopra i tappeti,
Agamennone prega che nessuna invidia di occhio lo colpisca (o[mmato"…fqovno" , v. 947).
Nell’Agamennone di
Eschilo Clitennestra sollecita il marito reduce “a compiere l’atto
sinistramente ominoso (cosa alla quale Agamennone si decide solo dopo un
serrato dialogo con la donna)”[10].
La porpora è
associabile e spesso associata al sangue e alla morte
Nel V dell’Iliade purpurea è la
morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe
porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo
prese la morte purpurea e la moira possente.
Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6
novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella
circontanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale (imperatorii
muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul
ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, Giuliano procedeva verso la reggia
(Ammiano Marcellino, Storie, XV, 8). Morirà nove anni dopo
combattendo contro i Persiani.
Dario III a capo
dell' esercito persiano schierato contro Alessandro spiccava per il suo sfarzo:
"purpurae tunicae medium album intextum erat"[11], la tunica di porpora era
intessuta d'argento nel mezzo. Ebbene il grande re era già prossimo alla
sconfitta e consacrato alla morte. Si avvicinava a diventare il re del
dolore, l ecce homo persiano
Anche
il Cristo tribolato, già
destinato alla morte, presentato da Pilato, è vestito di porpora: "Exiit
ergo Iesus foras, portans spineam coronam et purpureum vestimentum. Et dicit
eis - Ecce homo! - " ( Giovanni, 19, 5)
“Non di rado
l’oggetto acquista significato sulla scena come simbolo. La brocca che
l’Elettra euripidea porta sul capo serve ad esempio a mostrare in quali umili condizioni
l’abbia costretta a vivere la tracotanza di Egisto.
“Un forte
valore simbolico ha anche il tappeto di porpora che Clitemestra fa dispiegare
dinanzi ad Agamennone e che porterà il re nel bagno ove sarà assassinato; esso
rappresenta il mondo di lussi e di sfarzi di cui Clitemestra si compiace, ma ha
al tempo stesso un valore quasi magico, preludendo alla ricca veste in cui al
momento del delitto Agamennone resterà impigliato come in una rete”[12].
Credo di
avere riconosciuto un’eco del tappeto rosso nel film di Chaplin The great dictator (1940):
Napoloni - Mussolini, in visita da Hynkel - Hitler, non è disposto a scendere
dal treno se non gli distendono davanti un tappeto: “I never get out without
a carpet”.
C’è poi l’ambiguità dei ruoli: Penteo nelle Baccanti prima è
oppressore, poi vittima; Medea e la vecchia regina dell’Ecuba prima sono
vittime, poi diventano persecutrici e carnefici. Lo spettatore prova uno
“spostamento di simpatia” : “This bewildering shift of sympathy is common in Euripides. We have
had it before in such plays as the Medea and Hecuba :oppression generates
revenge, and the revenge becomes more horrible than the original oppression. In
these plays the poet offers no solution. He gives us only the bitterness of
life and the unspoken "tears that are in things”, questo sconcertante
spostamento di simpatia è comune in Euripide. Noi lo abbiamo avuto prima[13] in
opere come Medea ed Ecuba: l’oppressione genera
vendetta, e la vendetta diventa più orribile dell’originaria oppressione. In
queste opere il poeta non offre soluzione. Ci dà solo l’amarezza della vita e
le non dette ‘lacrime che sono nelle cose’”[14].
“Il poeta
tragico non considerava sufficiente una lettura banale della realtà. Essa
invece viene, nella tragedia, scoperta dal velo che la omologa a un giudizio
univoco, e se ne mostrano recessi nascosti. Questo modo di porsi di fronte alle
cose, che rigetta la convenzionalità dell’univoco e rivela una tensione che
scardina la normale intelaiatura del reale, può essere considerato una costante
del tragico in quanto tale: l’esasperazione della scrittura di Shakespeare e
anche il sottile gioco dissacrante di Pirandello si inscrivono in questo
quadro”[15].
Bologna 10
gennaio 2021 ore 19, 15
giovanni
ghiselli
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[1] "I nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite.
Quindi è inevitabile che un nome unico abbia più sensi": Aristotele, Confutazione
dei sofisti I, 165a 11.
[2] Cfr. Euripide, Fenicie, 409 sgg.:" Se la stessa cosa
fosse ugualmente per tutti bella e saggia, gli umani non conoscerebbero la
controversia delle contese. Ma per i mortali non esiste nulla di simile o di
uguale, salvo nelle parole; la realtà è tutta diversa".
[3] La stessa ambiguità appare negli altri termini che occupano un posto
di rilievo nella trama dell'opera: divkh, fivlo" e filiva, kevrdo" , timhv, ojrghv,
deinov" .
[4]J. P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia
nell'antica Grecia , p. 89.
[5] Fa parte di un Frammento
d'autobiografia dettato nell'estate del 1863 all'amico Pio Spezi che lo pubblicò
molti anni dopo (1933) nella "Nuova Antologia".
[6] Sei personaggi in cerca d'autore ( parte prima). Parla il
personaggio del Padre. La commedia andò in scena la prima volta il 10 maggio
1921 al teatro Valle di Roma.
[7] Pubblicato a puntate
sul settimanale "La fiera letteraria" nel 1926.
[8] “kai; zw'san
eijpei'n kai; qanou'san e[sti soi” (Euripide, Alcesti, v. 141). Parla
una qeravpaina.
[9] Jan Kott, Mangiare Dio,
p. 142.
[10] V. Di Benedetto (introduzione
a) Eschilo, Orestea, p. 26.
[11] Curzio Rufo, Historiae
Alexandri Magni, 3, 3, 17.
[12] Di Marco, Op. cit., p. 65.
[13] Prima delle Baccanti Ndr.
[14] G. Murray, Euripides
and his age, p. 187.
[15] V. Di Benedetto (introduzione di) Eschilo, Orestea, p. 9.
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