La telefonata insoddisfacente e brutta per l’ambiguità
di entrambiAlberto Magri, Ecce homo
Il giorno seguente, venerdì 17 agosto, mi svegliai verso le otto, poi mi alzai, mi lavai, mi vestìi con cura, quindi andai a prendere il tram numero uno per andare alla posta centrale e di lì telefonare a Ifigenia.
Era una mattina soleggiata ma fresca. Tanto che avevo indossato i calzoni di velluto e un golf di lana bianca, morbida e calda. Indumenti autunnali.
Più che autunno però, primavera sembrava: nei colori e nei profumi c’era qualche cosa di nuovo o di rinnovato. Mi aspettavo buone notizie. Ero emozionato come uno scolaro. Il verde delle foglie che si vedevano strisciare sui vetri del tram, i muri gialli delle case e i volti abbronzati delle persone billavano nella luce di quella mattina. L’estate di fatto era vicina alla fine ma l’equinozio già prossimo ancora non offuscava i colori: notai dei fiori purpurei: il loro rosso violaceo mi fece pensare al mantello imperiale e pure al purpureum vestimentum dell’ Ecce homo.
Questo segno insomma era ambiguo.
Mi chiesi se dopo la telefonata avrei avuto sul cranio anche la spinea corona del Cristo o avrei gioito per i lieti pensieri che si volgevano nella mia mente rassicurata dall’amante dai significati non più oscuri, speravo come quelli della Sfinge che era stata durante quel mese. Comunque l’avrei decifrata. Mi avviavo al telefono quasi fossi Edipo che si prepara ad affrontare la misteriosa creatura dal canto variopinto[1].
L’erba del resto era di colore verdissimo e il cielo aveva colori di festa.
Mi balenò tuttavia nella testa che quel venerdì 17 poteva essere il dì della festa nella quale sarei sato conciato come un maiale o sacrificato al pari della maxima victima: il toro o piuttosto il bue. Insomma quella lì non mi rassicurava.
Arrivai e chiesi la comunicazione. Verso le 10 finalmente udìi la voce di lei. Sembrava contenta di sentimi.
“Ciao sono gianni. Sono a Debrecen. Come stai, stai bene?”
“Oh gianni, sei tu finalmente! Mi sei mancato tanto! Ti amo. Mi fido di te, ma ti voglio qui, qui con me, subito, subito, subito! Quando arrivi? Oggi o domani?”
Tanta enfasi mi diede fastidio. Mi vennero in mente i bugiardi sistematici che dicono “grazie davvero!” una excusatio non petita dato che loro dicono tutto per finta.
Allora non ero abbastanza maturo per rinfacciarle direttamente il pessimo gusto, l’ipocrisia, e risposi: “Tornerò presto. Sei mancata parecchio anche tu a me. Fai bene a fidarti. Ti sono stato sempre fedele. Mi fido anche io. Però, dimmi: perché il tuo espresso non mi è mai arrivato?”.
Speravo in una spiegazione che la riabilitasse. Mi disponevo a crederla se fosse stata appena plausibile.
Ma quella rispose: “Non capisco”.
Compresi subito che non voleva farmi capire se non capiva come mai l’espresso non fosse arrivato o se non sentiva le mie parole.
Ma le aveva udite benissimo, al pari di tutte le altre.
Ero già abbastanza disincantato da conoscere i trucchi, le trappole e le coperte vie, insomma il metodo truffaldini di tale genìa.
Tuttavia ci riprovai gridando: “Non ho ancora ricevuto il tuo espresso. Puoi drimi perché?”
L’infame e sventurata ripetè : “Non capisco”.
Poi, prima che potessi ripetere ancora la domanda imbarazzante, riprese il metodo della lusinga sdolcinata immaginando che fosse seduttivo e risolutivo. Sicché cinguettò: “Gianni, tesoro, quando torni? Quando facciamo l’amore? Questa notte o domani mattina?”
Osò anche citare un verso di Ovidio che le avevo insegnato durante un incontro fervente:“invenit plures nulla tabella modos " (Ars amatoria , II, 680), nessun quadro ha trovato più posizioni.
“Maledetta!” pensai. Avevo sentito il sapore marcio della falsità totale, della truffa plebea. Diffidavo del tutto di tanta fretta e furia amorosa calcolata e simulata per eludere la mia domanda seria, dolorosa e legittima. Se avesse avuto davvero tanta voglia e tanta premura di me, mi avrebbe scritto più volte lettere lunghe in quel lunghissimo mese. L’ ostentata brama di vedermi al più presto, oltre che falsa, mi sembrò violenta o quanto meno desiderosa di sottomettermi: infatti, secondo gli accordi, sarei tornato in Italia soltanto dopo la fine della borsa di studio che, terminata a Debrecen, aveva un’appendice in altri luoghi dell’Ungheria, pieni di storia e di ricordi per me. La pretesa che io anticipassi il ritorno per lei mi irritò parecchio perché non teneva conto dei miei piani e della volontà mia che se avesse ceduto allora, si sarebbe piegata fino a terra più avanti, fino a essere capestata e schiacciata dalla sua, violenta e dispotica dietro la maschera amorosa.
Se fossi stato un uomo le avrei risposto: “No, scusami tanto, ma da una che non risponde alle mie domande e vuole raggirarmi, io non tornerò più. Sii felice e addio!”.
Ma ero ancora un mezzo bischero e mi limitai a dire: “No, come ti dissi, voglio compiere tutto questo mese di studio-vacanza e partecipare alle gite organizzate dall’Università. Partirò il 22, secondo i nostri patti. Ti domando ancora una volta, per la terza volta, perché mi hai preannunciato una lettera che poi non hai mandato”. Quest’ultima frase fu ignorata del tutto. Rispose solo: “Va bene”. Era seccata di non avere potuto impormi la sua volontà, cioè: “io ti scrivo quando ne ho voglia, e tu corri da me quando mi fa comodo”.
Dopo un momento di pausa però, forse temendo che le chiedessi di nuovo ragione dell’espresso mancato, riprese il tono caldo di amore delle prime parole false e disse: “gianni, ti prego, torna appena puoi, mi manchi tanto: tu non sai quanto mi manchi, altrimenti saresti già qui con me! Ricorda che ti amo e ti sono stata fedele, amore mio adorato!”
Stetti al gioco truccato e conclusi: “Anche io ti amo e ti sono stato fedele in tutti i sensi. Sarà bello vederci di nuovo e fare l’amore. Allora ci vedremo nella tarda serata del 22 o al più tardi la mattina del 23. Il 21 serà ti telefonerò per dirti l’ora della partenza e quella probabile dell’arrivo. Ciao amore”
“Ciao amore”.
giovanni ghiselli
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[1] Cfr. hj poikilw/do;" Sfivgx , Sofocle, Edipo re, 130.
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