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Il potere nuovo deve essere duro
siccome è fragile. Prometeo invoca la natura con versi riproposti da
D’Annunzio. Prometeo nella sua preveggenza ha presofferto tutto
Torniamo al prologo della tragedia, quando Efesto, pur riluttante per compassione, deve
incatenare il ribelle nella deserta solitudine della Scizia: infatti è Zeus che
lo vuole e la sua mente è inesorabile:"a{pa" de; tracu;"
o{sti" a}n nevon krath'/" (v. 35), chiunque comandi da poco tempo è duro.
Di questo verso si ricorderà Virgilio quando
la sua Didone si giustifica con Enea: "res dura et regni novitas me
talia cogunt /moliri et late fines custode tueri" (Eneide, I,
563 - 564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali
precauzioni e a vigilare per lungo tratto i confini.
Didone e Zeus sono duri per
difendere i loro regni nuovi dalle tante insidie che li minacciano.
Machiavelli cita questi versi
di Virgilio per avallare e autorizzare questa sua affermazione: "Et infra
tutti e' principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele,
per essere li stati nuovi pieni di pericoli"[1].
Insomma è un arcanum imperii che,
svelato, diventa lex.
Zeus non ha creato il mondo: è un
dio della terza generazione che ha messo ordine cosmizzando gli orrori della
prima (Urano e Gea) e della seconda (Crono, Rea, Giganti e Titani, gli eterni
nemici della cultura). Il Cronìde e i suoi fratelli hanno liberato l'universo
dai bruti che cercano sempre di rioccuparlo.
La lotta dell’ordine contro il caos
è il tema di tutta la cultura greca arcaica e classica: non solo di quella
letteraria, ma pure dell'arte figurativa: le sculture del maestro di
Olimpia con la lotta tra Centauri e Lapiti del frontone occidentale del
tempio di Zeus; le metope del Partenone con centauromachia, amazzonomachia,
gigantomachia, ora in gran parte nel British Museum di Londra; la
gigantomachia, fregio dell'altare di Pergamo[2] che si trova a Berlino, esprimono la
stessa idea . Infatti "non esiste( …) una vita nobile ed elevata senza la
conoscenza dei diavoli e dei demoni e senza la continua battaglia contro di
essi"[3], contro "giganti e titani,
miticamente, gli eterni nemici della cultura"[4].
“Non siamo noi a immettere nel mondo
la bellezza o l’amore o l’ordine. Li troviamo già nel mondo, e rispondiamo ad
essi in quanto siamo, nel nostro piccolo, corrispettivi di quelle potenze più
grandi”[5]. Questo vale anche per il disordine
che ha, pure esso, i suoi paradigmi storici e i suoi archetipi mitici.
Prometeo, se da un lato è inventore di una
tecnologia ambivalente, dall'altra fa parte di quelle creature caotiche le
quali formavano il corteggio della Magna Mater mediterranea, che
infatti viene invocata spesso nella tragedia di Eschilo dal Titano sofferente.
Secondo M. Untersteiner anzi egli è uno dei Pramatas, i demoni che nel Mahabarata
fanno parte del seguito di Siva, il dio distruttivo degli Indiani il quale può
corrispondere a Crono. Prometeo dunque sarebbe il simbolo delle civiltà
orientali arrivate attraverso il Caucaso dove si trova incatenato appunto
perché la sua patria di origine è l'India preariana e matriarcale. Con il
trionfo della religione olimpica questo figlio della Magna Mater viene
sconfitto e l'implacabile logica indoeuropea del potere prevale sulla non
logica della pietà. Del resto Eschilo crede che il progresso si attui nella
fusione delle due civiltà.
Quando i suoi aguzzini si
allontanano, l'incatenato invoca le forze della natura a comprenderlo e
compiangerlo: “o etere divino e venti dalle ali veloci,/e sorgenti dei fiumi, e
innumerevole sorriso/delle onde marine (pontivwn te kumavtwn - ajnhvriqmon
gevlasma), e terra
madre di tutte le cose (pammh'tovr te gh'),/e il disco del sole che vede tutto, invoco:/vedete quali pene soffro, io
che sono un dio, da parte degli dèi”(88 - 92).
Questi versi di Eschilo vengono
ripresentati da Gabriele D’Annunzio: “Chi consolerà/Colui ch’ebbe a sé
testimoni/il Sole, il Vento, /le sorgenti dei Fiumi, il riso/innumerevole delle
onde marine,/la madre di tutte le cose, la terra?” (Elettra, Per la
morte di un capolavoro)
La natura ridente e soleggiata contiene una promessa di riconciliazione.
Cfr. per converso il luogo infernale dell'Oedipus di Seneca dove non c'è luce[6] né speranza:" Tristis sub illa lucis et Phoebi inscius/restagnat humor, frigore aeterno rigens;/limosa pigrum circumit fontem palus" (vv. 545 - 547), sotto quella (una quercia) ristagna un'acqua cupa, che non conosce la luce del sole, irrigidita dal freddo eterno; una palude limacciosa circonda lasorgente inerte.
Prometeo si lamenta ma rivendica a
sé la capacità di prevedere[7] e la volontà di favorire i mortali: "Eppure che dico? Conosco in anticipo tutto (pavnta
proujxepivstamai)/esattamente
come accadrà, né alcuna pena mi/raggiungerà imprevista (oujdev moi
potaivnion - ph'm j oujde;n h{xei): ma il destino assegnato è necessario/ sopportarlo
il più facilmente possibile, sapendo che/la forza della necessità è
ineluttabile (to; th`~ ajnavgkh~ e[st j ajdhvriton sqeno~)"(vv.101 - 105).
Il doloroso grido "io ho
presofferto tutto" sarà ricorrente nella letteratura europea: dall'Eneide
dove il pio eroe risponde così alla Sibilla che gli ha preconizzato
disgrazie:"non ulla laborum,/o virgo, nova mi facies inopinave
surgit;/omnia praecepi atque animo mecum ante peregi "(VI, 103 - 105),
nessun aspetto dei travagli, vergine, mi si presenta nuovo o inaspettato: io mi
sono già sobbarcato tutto e ho compiuto in anticipo dentro di me con la mente.
In Curzio Rufo Dario dice all’eunuco
che gli portava la brutta notizia della morte della moglie Statira: “ cave
miseri hominis auribus parcas: didici esse infelix, et saepe
calamitatis solacium est nosse sortem suam” (4, 10, 26), non risparmiare le
orecchie di un pover’uomo: ho imparato a essee infelice e spesse riconoscere il
proprio destino è un sollievo della sventura
Infine il Tiresia di T. S. Eliot:"and
I Tiresias have foresuffered all ", ed io Tiresia ho presofferto
tutto (La terra desolata, 243).
Dunque Prometeo è anche una
figura profetica e rivelatrice: tanto è vero che Zeus, nel terzo dramma a noi
non pervenuto, Il Prometeo liberato[8], sarà costretto a venire a patti con lui
per sapere che cosa dovrà evitare: poiché neppure l'arbitrio del primo tra gli
dèi è illimitato.
“Eschilo applica a Zeus
l’insegnamento delle Eumenidi: la vittoria, da sola, non è sufficiente: perché
sia una vittoria totale deve prima sopravvenire la riconciliazione con i vinti
(…) Con ciò avviene qualcosa di estremamente ardito: il sommo degli dèi viene
ad avere una storia (…) Il regime di Zeus acquista durata soltanto attraverso
la moderazione, la disponibilità alla conciliazione ed evidentemente anche la
giustizia”[9].
Il titano lamenta la propria punizione
sbìta ingiustamente siccome causata dall’amore per l’unmanità: “guardate me
incatenato, un dio dal destino difficile,/il nemico di Zeus, quello che è
venuto in odio/ a tutti gli dèi quanti frequentano la corte di Zeus/per il
troppo amore dei mortali (dia; th;n livan filovthta brotw'n, vv. 119 - 123).
Non si deve dimenticare del resto
che livan significa
la dismisura che per i Greci fa sempre parte dell' u{bri" .
Si pensi al “mh; livhn” di Archiloco (fr. 128 West v. 7)
giovanni ghiselli
[1] Il Principe, XVII
[2] 180 - 160 a. C.
[3] H. Hesse, Il giuoco delle
perle di vetro, p. 293.
[4] J. Hillman, L'anima del mondo
e il pensiero del cuore , p. 144.
[5] J. Hillman, La forza del
carattere, p. 253.
[6] "La luce è
la più rallegrante delle cose: è divenuta simbolo di tutto ciò che è buono e
salutare. In tutte le religioni indica l’ eterna salvezza, mentre l'oscurità
indica dannazione" (A.
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione , p.
274). Infatti all'inizio delle Metamorfosi Ovidio mette in rilievo
che durante l'era del Caos l'aria mancava di luce e le cose non avevano aspetto
stabile: "lucis egens aër: nulli sua forma manebat "
(I, v. 17). Anche qui c'è il motivo della confusione.
[7] Il suo nome significa quello che pensa
in anticipo, al contrario del fratello Epimeteo che"non era saggio per
niente" secondo il Protagora di Platone, 321b - c, e
favoriva gli animali privi di ragione.
[8] Il primo era il Prometeo
portatore di fuoco.
[9] C. Meier, L’arte politica
della tragedia greca, p. 194.
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