Forzature della natura Anche l'aggiogamento degli animali non è visto come un atto
produttivo di bene dal tradizionalismo antico. Esso fa parte di quel sapere
tecnologico che costituisce una violenza sulla natura e non accresce né la
felicità né la stessa vita dell'uomo. La tecnica è molto più debole della
necessità: “tevcnh d j‘ ajnavgkh" ajsqenestevra
makrw`/ ” Prometeo
incatenato, 514). La tevcnh non comprende il destino. Questo predominio del fato non risparmia nessuno, e il martire aggiunge, consolandosene, che nemmeno Zeus potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino “ou[koun a]n ejkfuvgoi ge th;n th;n peprwmevnhn"(Prometeo ncatenato, v. 518). Destino e Necessità dunque sono le
divinità supreme. Vittorio Alfieri nel trattato Della
tirannide (del 1777) rileva questa sottomissione del dio
supremo alle leggi del fato. L’Astigiano distingue la religione
cristiana dalla pagana rilevando l’incompatibilità della prima con la
libertà: “La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e
col fare del cielo quasi una repubblica, e sottomettere Giove stesso alle
leggi del fato, e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere,
e fu infatti, assai favorevole al vivere libero (…) La cristiana religione,
che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al
viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver
libero (…) Ed in fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le
Sibille, gli Oracoli, a gara tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor
della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata in popolo non
libero, non guerriero, non illuminato e già intieramente soggiogato dai
sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina né pure mai la
libertà; ed il tiranno (o sacerdote o laico sia egli) interamente assimila a
Dio” (I, 8). U. Galimberti ricorda alcuni
versi del Prometeo incatenato a proposito della catastrofe
che ha colpito l'Asia il 26 dicembre 2004:" Rassicurato dalla sua mente
e dai prodotti della sua mente interrogò[1] Prometeo, che aveva donato la
tecnica agli uomini, ponendogli questa domanda:" E' più forte la tecnica
o la necessità che governa le leggi della natura?". Prometeo, amico
degli uomini e inventore delle tecniche, dà la sua risposta
lapidaria:"La tecnica è di gran lunga più debole della necessità che
governa le leggi della natura". Così riferisce Eschilo nel Prometeo
incatenato[2], e Sofocle, di rincalzo, nell'Antigone dice
che l'aratro ferisce la terra, ma questa si ricompone dopo il suo passaggio.
Allo stesso modo la nave fende la calma trasognata del mare, ma le acque si
ricompongono perché la natura è sovrana. Noi abbiamo dimenticato la sovranità
della natura( …) Fedeli esecutori del comando biblico che invitava Adamo al
dominio della terra, abbiamo trasformato il suo uso in usura (…) La terra per
noi è diventata materia prima e niente di più, il suolo coltre da perforare
per estrarre energia dal sottosuolo, la foresta legname da utilizzare, la
montagna cava di pietra, il fiume energia da imbrigliare, il mare riserva da
esplorare per futuri sfruttamenti, l'aria spazio dove scaricare i veleni
rarefatti delle nostre opere (…) Non dimentichiamoci la potenza della natura
e non abituiamoci a pensare che essa non è altro che materia prima, o
deposito di rifiuti"[3]. Già Alessandro Magno voleva
forzare la natura. Quando ebbe attraversato l’Oxo, arrivò a Margiana.
Rimaneva da conquistare una rocca sopra una rupe di 5000 metri, scoscesa.
Sembrava imprendibile e il re, considerata la sfavorevole morfologia del
terreno stava per desister, ma poi subentrò il desiderio furente di forzare
anche la natura : “cupido deinde incessit animo naturam quoque fatigandi”
(Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni , 7, 11, 4). La beata età dell'oro
di Tibullo non aveva le invenzioni di Prometeo. Sotto il regno di Saturno, al
tempo dell'armonia tra l'uomo e la natura, non c'erano le navi, non c'era il
commercio, né l'aggiogamento del toro, né l'imbrigliamento del
cavallo, né la proprietà privata, né il profitto: allora la terra con i suoi
figli, piante e animali, erano generosi nei confronti degli uomini e questi
vivevano senza preoccupazioni :"nondum caeruleas pinus contempserat undas,/effusum ventis
praebueratque sinum;//nec vagus ignotis repetens compendia terris/presserat
externa navita merce ratem.// illo non
validus subiit iuga tempore taurus,/non domito frenos ore momordit equus; //
non domus ulla fores habuit, non fixus in agris/qui regeret certis finibus
arva lapis// Ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant/obvia securis ubera
lactis oves" (I, 3, 37 - 46), ancora il pino non aveva
sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti il seno aperto[4]: né il marinaio errante cercando
profitti in terre ignote aveva caricato la barca di merci straniere. In quel tempo il toro robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non
morse il freno con bocca domata; le dimore non avevano porte, non c'era
pietra conficcata nei campi che segnasse la terra da arare con limiti certi.
Le querce offrivano il miele da sé, e le pecore spontaneamente portavano le
poppe gonfie di latte in mano a quegli uomini senza preoccupazioni. Il Prometeo antico, al pari quello
moderno, fornisce all'umanità dei mezzi che non le procurano la felicità né
incrementano la vita. Lo racconta Platone nel Protagora dove c'è il mito di Prometeo che per rimediare agli errori commessi dal
fratello Epimeteo rubò la sapienza tecnica di Efesto e di Atena con il fuoco
"th;n e[ntecnon sofivan su;n puriv"
(321d), poiché era impossibile che questa sapienza tecnica venisse acquisita
o impiegata da qualcuno senza il fuoco. Così Prometeo rubò la tecnica dell'uso del fuoco ("th;n te
e[mpuron tevcnhn", 321e) e la donò alla stirpe umana. Da questa
provennero agli uomini le risorse necessarie per vivere ("eujporiva
me;n ajnqrwvpw/ tou' bivou givgnetai").
Quindi l'uomo credette negli dèi, innalzò loro altari e statue, articolò con
tecnica voci e parole, e inventò abitazioni, vesti, calzature, coperte e gli
alimenti dalla terra ("kai; oijkhvsei" kai;
ejsqh'ta" kai; uJpodevsei" kai; strwmna;" kai; ta;" ejk
gh'" trofa;" hu{reto",
322a). Eppure gli uomini continuavano a morire poiché non possedevano ancora
l'arte politica ("politikh;n ga;r tevcnhn ou[pw ei\con", 322b) senza la quale commettevano ingiustizie reciproche ("hjdivkoun
ajllhvlou""), e non potevano coesistere né sussistere.
Allora Zeus, temendo l'estinzione della nostra specie, mandò Ermes dagli
uomini a portare rispetto e giustizia ("J Ermh'n
pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai; divkhn", 322c) e gli ordinò di distribuirli a tutti poiché non
esisterebbero città se pochi uomini partecipassero di rispetto e giustizia.
Quindi impose per legge che quanti non fossero in grado di partecipare di
rispetto e giustizia venisse ucciso "wJ" novson povlew"", (322d) come malattia della città. L’ingiustizia è la malattia del tiranno e lo porta alla rovina, come si
vede nel Serse dei Persiani di Eschilo. Ancora: nell' Antigone
di Sofocle, Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male
della città:" kai; tau'ta th'" sh'"
ejk freno;" nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per
la tua disposizione mentale. Ogni tiranno ignora la giustizia ed è una malattia
per la sua città. E' l'antica concezione già presente in Esiodo secondo la quale non ci
sarà scampo dal male "kakou' d j oujk e[ssetai ajlkhv" quando dalla terra spaziosa se ne andranno sull'Olimpo Aijdw;"
kai; Nevmesi"" (Opere , vv. 196 - 201). Giustamente dunque Zeus punisce
Prometeo, tanto più che il potere del figlio di Crono è recente, l'ordine
dato al mondo è ancora poco sicuro e questo rischia di tornare nel Caos, il
guazzabuglio universale invocato dalla “effera… Erictho” di Lucano (Pharsalia, VI,
508) "et Chaos innumeros avidum confundere mundos",
il Caos avido di confondere innumerevoli mondi ( v. 696). giovanni ghiselli |
[1] Il soggetto immaginato da Galimberti è
l'uomo che costruisce argini, difese e inventa la tecnica previsionale per
allontanare il più possibile l'inquietudine dell'imprevedibile.
[2] Cfr. v. 514 (n. d. r.)
[3] U. Galimberti, La natura inumana, in
"la Repubblica" 27 dicembre 2004, p. 23.
[4]Quello delle vele, quasi fossero donne
sfacciate.
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