Il racconto
di PrometeoRubens, La caduta dei Titani
Dunque
Prometeo racconta la teomachia, la lotta tra gli dèi. All'inizio egli è incerto
se schierarsi con Zeus o con i Titani, i figli di Urano dai pensieri violenti.
La madre: "Qevmi" - kai; Gai'a, pollw'n ojnomavtwn morfh; miva" ( vv. 209 - 210), Temide e Terra, una sola forma di molti nomi, gli aveva predetto il futuro: il potere sarebbe stato conquistato con l'inganno. Prometeo è una creatura della Magna mater, la divinità femminile mediterranea che domina il dio maschio a lei subordinato, il paredro, e prende diversi nomi a seconda delle regioni e delle società matriarcali dove viene venerata: i più noti sono Rea e Cibele, ma anche la Giocasta di Sofocle ha due nomi: nell'Odissea (11, 271) è chiamata Epicasta.
M. Bettini ricorda una definizione della Sfinge che può avvicinare tale "enigma vivente" a
questa Magna mater invocata da Prometeo "Dione Crisostomo[1] la definisce[2] ejk pantodapw'n fuvsewn miva morfhv [3]", una sola forma di molte nature.
Sfinge e Giocasta hanno in comune l’incesto che confonde le generazioni: la
Sfinge è figlia della vipera Echidna e del figlio di questa: il cane Orto. In
questo caso c’è pure una confusione di specie
Pure in alcune opere di Pirandello la
donna compare binominata: nella commedia Ma non è una cosa seria (del
1918) per esempio la protagonista è una sola donna di due nomi: Gasparina e
Gasparotta.
Altrettanto Evelina Morli[4] che viene chiamata "Eva" dal marito Ferrante Morli, e
"Lina" dall'amante Lello Carpani.
Se questo da una parte può
significare la lacerazione della donna e la divisione dei suoi affetti,
dall'altra rimanda alla magna mater: pollw'n
ojnomavtwvn morfh; miva appunto.
Il Titano,
consigliato dalla madre, prima aiuta Zeus contro Crono, finito perciò nel
Tartaro (219 - 220), ma poi, quando il nuovo re dell'universo si appresta ad
annientare la stirpe umana, diviene suo oppositore.
Le Oceanine
si impietosiscono per la sorte di Prometeo e lo stesso Titano si sente
meritevole di tanta compassione (v.246), eppure è tutt'altro che pentito e
prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo
delitto: "io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho
compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n
eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(265 - 267).
L' euJrethv" si scopre inventore di pene.
La
rivendicazione di Prometeo fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e
argomenti a Nietzsche in La nascita della tragedia per distinguere
"la concezione ariana" dal " mito semitico".
" La
cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la
conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero
flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il
genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la
dignità conferita al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del
peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità,
la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata
come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea
del peccato attivo come vera virtù
prometeica"[5].
eJkwvn significa la
determinazione nell’attribuirsi la volontà di un fatto anche accidentale,
persino di un errore.
In Cassio Dione Cesare rivendica dignità alla scivolata di cattivo augurio
avvenuta durante lo sbarco in Africa. Appena toccò terra, inciampò, e i
soldati, avendolo visto cadere bocconi, si scoraggiarono e, turbati,
rumoreggiarono, ma Cesare non restò imbarazzato, anzi wJ" kai;
eJkw;n dh; peswvn, anzi, come se fosse caduto apposta, afferrò la
terra, la baciò e gradando disse: “ e[cw se, jAfrikhv” , ti tengo, Africa (42, 58, 3).
Vediamo la
conclusione del dramma. Il Titano ribadisce che Zeus si prepara a nozze che lo
sbalzeranno dal trono (vv. 909 - 910): allora si compirà la maledizione del
padre suo, Crono, che il figlio aveva esautorato.
Solo
Prometeo, figura rivelatrice, può indicare chiaramente (dei'xai safw`~, v. 914) la deviazione rispetto a tali mali e salvare così il potere di
Zeus. Questo è un paradosso siccome il Titano è un fiero oppositore del nuovo
reggitore, ma si sa che a volte proprio dai contrari deriva l'armonia. Eschilo
comunque tende alla conciliazione delle unilateralità in collisione tra loro,
come si vede nell' Orestea, l'unica trilogia che ci è giunta.
Intanto
il martire sfida il re dell'universo, sebbene la corifea gli ricordi che
"i
saggi (sofoiv) si
inchinano davanti all'inevitabile"(v. 936).
Ma Prometeo
in tutta questa tragedia è irremovibile nella sua opposizione ostinata. Solo
nel terzo dramma della trilogia le parti in conflitto troveranno un accordo e Pometeo
verrà liberato.
Quando
vede sopraggiungere Ermes, Prometeo lo annuncia come il galoppino di Zeus, il
servitore del nuovo tiranno (“ajll j eijsorw` ga;r tovnde to;n Dio;~ trovcin, - to;n
tou` turavnnou tou` nevou diavkonon” (v. 941 - 942) e gli fa notare che il suo discorso
superbo è tipico di un servo degli dèi (qew'n
uJphrevtou, v. 954).
La signoria
di Zeus, avverte il Titano, è nuova, e non è detto che durerà eterna:"ho
già visto cadere due sovrani da questi fastigi" (957). Si tratta di Urano,
spodestato dal figlio Crono, e di questo stesso dio detronizzato da Zeus.
La tirannide
è una monarchia claudicante. Il tiranno è figlio d u{bri~ e la sua caduta dall’alto
accentua la sua zoppia (cfr. Edipo re, vv. 873 - 879).
Il
Titano giunge a dire: “con parola schietta (lovgw/ aJplw`/) odio tutti gli dèi/quanti,
dopo avere ricevuto del bene, mi maltrattano ingiustamente” (vv. 975 - 976). E
confida nel tempo che invecchiando insegna proprio tutto (“ajll j
ejkdidavskei pavnq j oJ
ghravskwn crovno" "
(v. 981).
Questo verso
traspone il notissimo pentametro di Solone ("invecchio imparando sempre
molte cose”) in termini cosmici.
In
queste parole ci sono due segni positivi che depongono a favore di Prometeo.
Il beneficio
del tempo
Uno è
l’attesa del tempo che, come afferma Creonte nell’ Edipo re, rivela
l’uomo giusto (v. 614). Quindi il Coro dei vecchi tebani lo approva:" Ha detto
bene per chi si guarda dal cadere signore/: infatti i veloci a capire non sono
sicuri" (vv. 616 - 617).
L’attesa del
beneficio del tempo è topica.
Nel De ira Seneca consiglia di prendere tempo per
combattere la tendenza a questa forma di brevis insania :"Dandum
semper est tempus: veritatem dies aperit " (II, 22), bisogna
sempre concedersi del tempo: i giorni svelano la verità. E ancora: "Maximum
remedium irae mora est" (II, 29), massimo rimedio dell'ira è il
differire.
Il tempo come rivelatore viene invocato pure da Cordelia, la figlia
buona di Re Lear: "Time
shall unfold what plaited[6] cunning hides", il tempo spiegherà ciò che
l' attorcigliata astuzia nasconde (I, 1).
Altrettanto in La
tragedia spagnola [7]dove Isabella, la moglie di Hieronimo (quello che "è pazzo di
nuovo"[8] ), dice al marito: "l'assassinio non può essere nascosto: il
tempo è autore insieme della verità e della giustizia, e il tempo porterà alla
luce questo tradimento" (II, 6).
Altro segno topicamente positivo è quello della semplicità (lovgw/ aJplw`/, Prometeo incatenato, v. 975): nelle Fenicie di Euripide Polinice
afferma che il discorso della verità è semplice:" aJplou'"
oJ mu'qo" th'" ajlhqeiva" e[fu" (v. 469) e una causa giusta non ha bisogno di
spiegazioni maculate (kouj pokivlwn dei' ta[ndic j eJrmhneumavtwn, v. 470).
"Veritatis
simplex oratio est" traduce Seneca (Ep. 49, 12).
Chirone, dikaiovtato" Kentauvrwn[9], il più giusto dei Centauri,
"nodrì Achille"[10] insegnandogli quella
naturalezza e semplicità di costumi che è la quintessenza dell'educazione sana.
Il figlio di Peleo nell' Ifigenia
in Aulide riconosce tale alta paideia all'uomo piissimo che
l'ha allevato:"ejgw; d j, ejn ajndro;" eujsebestavtou
trafei;" - Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'"
e[cein" (vv.
926 - 927), ho imparato ad avere semplici i costumi. In tal modo il figlio di
Peleo imparò a non apprendere gli usi degli uomini malvagi (v. 709).
continua
giovanni ghiselli
[1] Vissuto tra il I e il II sec.
d. C. (40 - 112) fu tra gli iniziatori della Seconda Sofistica. Ci sono
arrivate circa 80 orazioni.
[2] I 274, 32 Arnim.
[3] M. Bettini, L'arcobaleno,
l'incesto e l'enigma a proposito dell'Oedipus di Seneca,
"Dioniso", 1983, . p. 152.
[4] La signora Morli, una e due commedia
del 1920.
[5] F. Nietzsche. La
nascita della tragedia, capitolo 9.
[6] L'astuzia è ,
come l'incesto, contorta.
[7] di Thomas Kyd (del 1585)
[8] Hieronymo's mad again (
T. S. Eliot, The waste land, v. 437)
[9] Odissea XI, 832.
[10] Dante, Inferno, XII,
71.
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